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La farmaceutica è da sempre uno dei motori dell’industria italiana. Un settore che intreccia scienza, salute, lavoro e innovazione, e che negli anni ha permesso al nostro Paese di affermarsi come uno dei principali produttori ed esportatori in Europa. Dietro la facciata di un comparto solido e competitivo, però, si nasconde un equilibrio fragile, minacciato da una visione e da politiche industriali di breve periodo.
Negli ultimi decenni l’Italia ha disinvestito nella ricerca di base, concentrando risorse e strategie sulle fasi finali della catena produttiva – confezionamento, packaging, distribuzione – dove i ritorni economici sono più rapidi. È una scelta che ha prodotto risultati nell’immediato, ma che nel lungo periodo indebolisce il sistema. Senza ricerca di nuove molecole, senza una fase preclinica solida, la nostra farmaceutica rischia di diventare un semplice fornitore di servizi per altri.
L’Italia confeziona intelligenze altrui
Un tempo i laboratori italiani erano capaci di individuare decine di nuove molecole promettenti ogni anno. Oggi, nella migliore delle ipotesi, se ne contano poche unità. È il segno di un Paese che non investe più nella conoscenza e lascia evaporare competenze costruite in decenni di lavoro pubblico e privato. Il risultato è una dipendenza crescente dai centri di ricerca stranieri e un indebolimento strutturale della nostra capacità di innovare.
La ricerca di base è la linfa vitale dell’industria farmaceutica. È lenta, incerta e costosa, ma genera le scoperte che alimentano le industrie del futuro. Quando la si abbandona, si spezza la catena del valore. Oggi la nostra farmaceutica esporta il 97% della produzione, ma ciò che vendiamo è spesso il risultato di conoscenze sviluppate altrove. È come se ci limitassimo a confezionare l’intelligenza altrui.
Cervelli in fuga, sistema sterile
I ricercatori italiani restano tra i più apprezzati al mondo. Eppure continuano a emigrare, attratti da laboratori finanziati, stipendi adeguati e la possibilità di trasformare il proprio lavoro in risultati concreti. Ogni anno formiamo talenti che vanno a produrre valore per altri Paesi. È un’emorragia silenziosa che impoverisce la sanità e la manifattura più avanzata.
Per anni si è pensato che il mercato potesse regolare da solo la ricerca, affidandola ai tempi brevi della finanza. Ma la ricerca non vive di trimestri. Ha bisogno di continuità, di visione pubblica, di politiche stabili e di un orizzonte lungo. Senza una regia nazionale, anche le eccellenze si disperdono.
Un rischio per la salute e per l’industria
Abbandonare la ricerca di base significa rinunciare alla possibilità di sviluppare nuove terapie. La dipendenza scientifica si traduce in dipendenza sanitaria: se non innoviamo, non curiamo. Quando un Paese smette di generare conoscenza, finisce per acquistare anche la propria salute da chi innova di più.
La farmaceutica italiana è oggi un gigante dai piedi d’argilla. Potente nei numeri, debole nelle fondamenta. Regge finché i grandi gruppi internazionali trovano conveniente produrre qui. Ma se le convenienze cambiano, rischiamo di perdere in poco tempo ciò che abbiamo costruito in decenni.
L’effetto Trump
Il 1° ottobre scorso l’amministrazione Trump ha sospeso i dazi del 100% sui farmaci importati, ma ha imposto nuove condizioni: le big pharma dovranno rilocalizzare parte della produzione negli Stati Uniti o ridurre drasticamente i prezzi. Pfizer ha siglato un accordo storico con la Casa Bianca, ottenendo una deroga triennale in cambio di sconti fino all’85% sui medicinali e di 70 miliardi di dollari di nuovi investimenti in ricerca e produzione Usa.
Questo nuovo schema americano sta già ridisegnando le strategie globali delle multinazionali, e rischia di penalizzare l’Italia. Il nostro Paese potrebbe essere confinato a ruoli marginali e, al bisogno, facilmente ridimensionabili, mentre la produzione di valore e innovazione viene portata altrove. Il modello Trump, basato su rilocalizzazione e compressione dei prezzi, espone il nostro sistema a un pericolo concreto di desertificazione industriale.
Senza una politica europea forte e una regia nazionale coerente, gli stabilimenti italiani rischiano di perdere centralità. Gli investimenti si ridurranno, i poli scientifici si indeboliranno, e con essi si impoverirà un intero tessuto produttivo e sociale.
Il diario delle crisi
Da qualche anno, la cronaca del settore è diventata un lungo elenco di vertenze. Tra il 2021 e il 2024 il gruppo israeliano Teva ha annunciato la chiusura del sito di Nerviano, alle porte di Milano, con oltre 300 posti a rischio. Nel 2024 Aptuit Verona ha avviato la procedura di licenziamento per 31 ricercatori. Pochi mesi dopo GSK Vaccines/Rosia ha formalizzato 270 esodi incentivati nello stabilimento di Siena, seguiti nel 2025 da Pfizer, con 72 tagli nel sito di Ascoli, legati al calo della produzione post-pandemia.
Sempre nel 2025, Bristol Myers Squibb ha ridotto il personale di 47 unità, Innova Pharma e Recordati hanno annunciato 63 esuberi, mentre Nerviano Medical Sciences ha aperto la procedura di licenziamento per 73 ricercatori mettendone definitivamente a rischio decenni di ricerca oncologica. A seguire Q Farma, con 90 addetti in esubero nella logistica, e Novo Nordisk, che ha sospeso la produzione del farmaco anti-obesità Wegovy nello stabilimento di Anagni, nel Frusinate, mettendo a rischio un investimento da 2,5 miliardi.
Intanto, in Germania, Bayer ha avviato un piano di riduzione dei costi con oltre 11.000 tagli globali, effetto dell’acquisizione fallimentare di Monsanto e delle cause legali sul glifosato. Nonostante le perdite miliardarie del gruppo tedesco, non parliamo di un intero settore in crisi, ma che merita la massima attenzione e la pianificazione di strategie di medio-lungo periodo.
La farmaceutica italiana affronta oggi nodi profondi: la dipendenza dalle materie prime estere, l’esitazione degli investitori, l’aumento dei costi energetici e dal punto di vista reputazionale l’impatto ambientale e la crescente emergenza della resistenza antimicrobica. È un sistema sotto pressione, dove l’incertezza industriale si somma a quella sanitaria.
A complicare il quadro c’è la trasformazione del modello di business: le aziende spingono sempre più sul marketing e sulla promozione dei farmaci, mentre assistiamo alla continua riduzione della spesa pubblica per la sanità.
Curarsi da soli
Si crea così un paradosso: da un lato un’industria che spinge sul consumo di farmaci, dall’altro uno Stato che ne frena l’accesso. Nel mezzo, cittadini sempre più soli, chiamati a orientarsi tra pubblicità e autocura, tra un sistema sanitario in difficoltà e un mercato che parla il linguaggio del profitto.
La farmaceutica resta un pilastro dell’economia italiana, ma – come sottolinea la Filctem Cgil – senza ricerca, senza una visione pubblica e senza politiche industriali solide, rischia di perdere la propria missione originaria: curare, non solo vendere. Difendere il settore non significa proteggere rendite o stabilimenti, ma garantire che la salute delle persone non diventi una variabile dipendente dalle logiche del mercato.