Quando parliamo della chiusura del Nerviano medical sciences (Nms), non possiamo ridurla a una vertenza sindacale o a un caso aziendale. Qui si tratta di un pezzo intero della conoscenza italiana che viene smantellato. Dalla Carlo Erba in poi, per decenni il centro è stato uno dei più importanti di ricerca oncologica in Europa.

Un luogo in cui si sono formati ricercatori di livello mondiale, che hanno contribuito a sviluppare farmaci fondamentali. Oggi quei laboratori stanno per essere smantellati, e con essi rischiamo di perdere non solo posti di lavoro, ma la capacità stessa del Paese di innovare.

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L’Italia fanalino di coda negli investimenti in ricerca

La verità è che la chiusura del Nms non è un caso isolato: è il sintomo di un problema strutturale. In Italia la spesa in ricerca e sviluppo è cronicamente insufficiente. Secondo i dati Ocse investiamo circa l’1,3% del pil: meno della metà della media Ocse, che è 2,8%, e ben sotto la media europea, al 2,1%. Paesi come la Germania sono già oltre il 3%, e gli Stati Uniti hanno consolidato livelli simili o superiori.

Il divario con i leader mondiali si è allargato negli ultimi quarant’anni: se negli anni Ottanta del secolo scorso eravamo distanti circa un punto percentuale, oggi il gap con gli Stati Uniti è sopra i due. Non stiamo solo rallentando, stiamo arretrando.

Il paradosso è che mentre noi arretriamo, altre economie corrono. Gli Stati Uniti spingono le multinazionali a rientrare all’interno dei propri confini, la Cina investe massicciamente nella chimica di base e nella ricerca farmaceutica, l’India si muove sulla stessa scia. Loro presidiano l’inizio della catena, noi ci accontentiamo della fine. Ma senza ricerca non c’è industria, senza industria non c’è occupazione qualificata, senza occupazione non c’è futuro.

Questo significa che interi settori ad alta tecnologia – quelli che dovrebbero trainare la crescita e la competitività – si trovano a competere con risorse troppo scarse. E la ricerca di base, la più costosa, quella che richiede più tempo, è la prima a essere sacrificata.

Una filiera spezzata

Se guardiamo alla farmaceutica, l’Italia è eccellente nell’assemblaggio dei principi attivi e nel confezionamento: esportiamo oltre il 70% della produzione. Ma questo non basta. Perché senza la parte iniziale – la ricerca di molecole, la sperimentazione preclinica – restiamo dipendenti dall’estero.

Un tempo in Italia si individuavano fino a cento molecole promettenti all’anno. Oggi siamo scesi a dieci, quindici. È un crollo verticale. La logica è chiara: le imprese hanno abbandonato la ricerca di base, considerata troppo costosa e incerta, e si sono concentrate sul pezzo finale della catena, più rapido e remunerativo. Ma così l’industria diventa un gigante dai piedi d’argilla: basta che i colossi globali decidano di riportare vicino casa anche le fasi finali della produzione per ritrovarci senza più niente.

Ricercatori in fuga

Il punto non è solo economico: è umano. I ricercatori italiani sono tra i più apprezzati al mondo, ma troppo spesso devono emigrare. All’estero trovano laboratori finanziati, stipendi tre o quattro volte più alti, e soprattutto la possibilità di vedere il frutto del proprio lavoro trasformarsi in farmaci e terapie.

Qui invece si trovano davanti centri che chiudono, università sottofinanziate, concorsi opachi e risorse limitate. E così il Paese investe per formare competenze che poi regala ad altri. È un’emorragia silenziosa che pesa sulla qualità della nostra sanità e sul nostro futuro industriale.

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Il corto circuito della politica

Noi parliamo tanto di made in Italy, e il governo lo usa come slogan identitario. Ma il made in Italy non può essere solo un’etichetta di lusso, non può ridursi a moda e griffe: dovrebbe significare capacità di innovare, di trovare soluzioni, di dare risposte concrete ai bisogni delle persone. La salute, per esempio, è il bisogno più universale e concreto che ci sia. Possibile che proprio lì scegliamo di tagliare?

E c’è un punto politico, che non possiamo nascondere. Tutto questo succede perché per decenni si è scelto di lasciare che fosse solo il mercato a decidere. Ma il mercato da solo non si autoregola. Al contrario: i fondi d’investimento guardano al profitto immediato, massimo tre o quattro anni, e poi chiudono o vendono. Gli investitori privati guardano solo al rendimento.

Ma chi ci mette i soldi, i risparmiatori, i cittadini, forse non si rendono conto che inseguendo il guadagno facile tagliano il ramo su cui sono seduti. Perché oggi incassi dividendi, domani però chiude la fabbrica sotto casa, dopodomani l’ospedale non ha più i farmaci innovativi che fino a oggi aveva. Ci vorrebbe una campagna culturale anche su questo: capire che non tutto può essere ridotto a breve profitto. È accaduto con Nms, accade in tanti altri settori. Il risultato è che pezzi interi del nostro sistema produttivo vengono svenduti o dismessi, senza alcuna regia nazionale.

E allora non è più solo una questione sindacale: è una questione politica. Se la salute, la ricerca, l’innovazione sono settori strategici, lo Stato non può restare a guardare. Deve garantire investimenti stabili, creare incentivi di lungo periodo, costruire filiere complete. Altrimenti continueremo a fare da comparse nello sviluppo globale.

Un parallelo con la chimica

Lo stesso schema lo abbiamo già visto nella chimica di base. Abbiamo chiuso impianti che producevano materiali essenziali, pensando che fosse più conveniente importarli. Oggi interi comparti industriali dipendono dall’estero.

Le conseguenze sono concrete e immediate. Dipendere dalle importazioni espone le filiere a choc esterni — aumento dei prezzi, ritardi logistici, restrizioni alle esportazioni o crisi geopolitiche — che si riflettono a valle sul costo e sulla disponibilità di beni fondamentali. Un ragionamento che vale anche per i principi attivi farmaceutici.

Inoltre, molte produzioni chimiche richiedono impianti complessi e norme di sicurezza stringenti: riaprire uno stabilimento richiede anni, investimenti ingenti e professionalità difficili da ricostruire. In pratica, quando perdi una capacità strategica, non la recuperi con un semplice clic.

Nella farmaceutica il rischio è identico, con la differenza che la posta in gioco è ancora più alta: la salute delle persone. Senza ricerca di base, senza la capacità di generare nuove molecole, non solo perdiamo competitività, ma perdiamo la possibilità di offrire cure innovative ai cittadini.

Una scelta di civiltà

Il Nerviano medical sciences, in questo senso, è un simbolo. Non riguarda solo Milano o la Lombardia: riguarda la capacità dell’Italia di decidere se vuole stare tra i Paesi che innovano o tra quelli che comprano innovazione dagli altri.

Se non riportiamo la spesa per ricerca almeno ai livelli europei, se non diamo ai ricercatori motivi per restare, se non costruiamo una filiera completa che parta dalla ricerca di base e arrivi alla produzione, continueremo a perdere terreno.

La scelta è semplice: o investiamo, riconoscendo che la ricerca è la più grande infrastruttura del futuro, o accettiamo di diventare un Paese dipendente. La chiusura del Nerviano medical sciences è un campanello d’allarme che non possiamo permetterci di ignorare. Faremo di tutto per impedirlo.


* Marco Falcinelli è il segretario generale della Filctem Cgil