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Ci voleva il mondo del lavoro per ricordare che la pace non è un semplice hashtag ma una faccenda di carne, ossa e sangue. Mentre i governi blaterano di “legittime difese” e “equilibri regionali” con lo stesso tono con cui parlano di spread e mercati, oggi gli operai, gli edili, i metalmeccanici e chiunque abbia ancora un nervo scoperto incrociano le braccia contro il genocidio in corso. Altro che sorrisi da export manager delle armi: qui si parla di vite polverizzate.
La Cgil chiama e i lavoratori rispondono non per folklore ma per rabbia viscerale. Perché non si può timbrare il cartellino mentre a Gaza i bambini vengono sminuzzati come carne da macello. Fermare la produzione è il minimo, ed è insieme un grido gigantesco: basta essere ingranaggi silenziosi nella catena di montaggio della morte. Lo sciopero è una crepa nell’omertà planetaria che guarda e volta la testa.
Già li sento i benpensanti che gorgheggiano indignati: “Cosa centra il lavoro con la Palestina?”. Centra eccome. Ogni fabbrica ferma, ogni azienda e negozio chiuso è un dito puntato contro i palazzi del potere: non tutto è quotabile in borsa, non ogni eccidio può essere relegato a notizia di terza pagina. Lo sciopero è voce collettiva che spacca la vetrina della diplomazia ipocrita e infastidisce chi preferisce affari puliti e coscienze sporche.
Chi oggi sciopera sa che la neutralità è il vizio dei pavidi. Sa che i corridoi umanitari non si spalancano con i comunicati ma con la pressione reale: stop ai contratti d’armi, stop agli scambi che ungono i carri armati, riconoscimento della Palestina subito. Fermarsi per Gaza non è solo un gesto simbolico è un licenziamento per giusta causa al cinismo globale.
E almeno per oggi (e perché non farlo ogni venerdì?) il lavoro non produce né merci né beni né servizi ma dissenso. Così magari domani potremo finalmente mettere in cassa integrazione pure la disumanità.