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L’inchiesta della Procura di Milano che ha trascinato tredici grandi marchi del lusso dentro la rete delle verifiche sul caporalato esplode come un terremoto politico e industriale. Gucci, Prada, Versace, Dolce & Gabbana, Missoni, Ferragamo, Yves Saint Laurent, Givenchy, McQueen, Adidas e gli altri citati negli atti della magistratura rappresentano il cuore del made in Italy. Ma mentre i carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro bussano alle sedi dei brand, le voci della società civile e del lavoro organizzato convergono su un punto: quello che emerge non è un incidente. È un sistema.
“Il problema è di sistema”: l’affondo di Campagna Abiti Puliti
Campagna Abiti Puliti, che da anni documenta lo sfruttamento lungo le filiere italiane ed europee, parla senza girarci attorno di una verità ormai impossibile da negare. Anche i sindacati di categoria – Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil – sostengono che ciò che sta venendo alla luce non solo conferma denunce storiche, ma mette a nudo la noncuranza con cui politica e imprese hanno preferito erigere barriere anziché soluzioni. Al centro delle critiche c’è il disegno di legge Pmi, il provvedimento governativo che introduce uno scudo penale per le aziende capofila. Una norma che, per chi denuncia condizioni di lavoro al limite, rappresenta un’inversione morale prima ancora che legislativa.
Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, descrive il fenomeno come strutturale. Non si tratta di qualche imprenditore opaco: i laboratori clandestini, i turni da 12 o 14 ore, le paghe che non raggiungono nemmeno il minimo contrattuale, gli ambienti in cui si dorme accanto ai banchi da lavoro non sono eccezioni. Sono la base di una parte importante della filiera del lusso.
Il ruolo dei modelli 231: strumenti di controllo o scudi di carta?
E proprio mentre queste condizioni diventano oggetto di interesse penale, la Procura chiede alle aziende ben più dei semplici contratti o delle distinte di produzione. Nei documenti consegnati ai tredici marchi del lusso, la magistratura vuole vedere anche i cosiddetti “modelli di prevenzione”: quei sistemi interni che dovrebbero impedire reati legati alla gestione degli appalti, come controlli sulla filiera, verifiche sui fornitori, procedure di segnalazione e monitoraggio.
Sono strumenti previsti dalla Legge 231 del 2001, nata per valutare la responsabilità delle imprese quando, dentro la loro organizzazione o nella loro filiera, avvengono reati come sfruttamento, caporalato, frodi o violazioni sulla sicurezza. In teoria, un modello 231 ben costruito e applicato davvero potrebbe essere un elemento a favore dell’azienda.
Il punto, però, non è più formale. È sostanziale. La Procura vuole capire se questi strumenti funzionano davvero o se, negli anni, si sono trasformati in scudi di carta utili più a proteggere i marchi che a prevenire lo sfruttamento nei laboratori. E Campagna Abiti Puliti insiste: la semplice presenza di un modello 231, spesso elaborato per obbligo più che per convinzione, non può diventare una scorciatoia per assolvere chi guida la filiera. Perché se un marchio ordina borse da migliaia di euro ma paga la produzione poche decine, è inevitabile che qualcuno, più a valle, tagli su diritti e sicurezza.
Lucchetti aggiunge che questo sistema danneggia anche le piccole e medie imprese che rispettano le regole e si trovano schiacciate da chi gioca al ribasso sul costo della manodopera. Chiede quindi una riforma capace di imporre trasparenza totale, controlli indipendenti, responsabilità diretta delle aziende sugli appalti e nessuno scudo penale. “È il momento di proteggere chi lavora, non chi sfrutta”, ripete.
I sindacati: “Schizofrenia del sistema moda, il governo ci ascolti”
Sul fronte sindacale, la lettura è altrettanto netta. Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil parlano di “schizofrenia strutturale”: una facciata scintillante di boutique e passerelle e, dietro, una rete di appalti e subappalti incontrollati, salari compressi, orari infiniti, laboratori insalubri.
L’inchiesta di Milano, per loro, è l’ennesima conferma di ciò che denunciano da anni. E riporta al centro un tema cruciale: la responsabilità solidale dei marchi capofila. Da qui l’opposizione durissima allo scudo penale previsto dal ddl Pmi, definito una “scorciatoia per chi lucra sullo sfruttamento”.
“Crediamo sia inaccettabile – proseguono i sindacati – che i grandi marchi, beneficiari di bilanci record, possano avere una sorta di beneplacito che li esclude da ogni responsabilità rispetto alle condotte delle ditte cui danno in appalto le lavorazioni. Non è possibile escludere o alleggerire la responsabilità solidale del committente sugli appalti e subappalti, specialmente in presenza di presunti ‘modelli di controllo’ interni. L’adozione di un modello organizzativo non può agire come clausola di esonero automatico. La responsabilità solidale è uno strumento fondamentale per garantire che chi trae il maggior beneficio economico dalla filiera eserciti un controllo effettivo e vincolante sulla regolarità di ogni passaggio produttivo”.
La piattaforma sindacale: cinque punti per cambiare il settore
I sindacati riassumono la loro proposta in cinque punti: stop all’emendamento “Salva committenti” e ritiro degli articoli del ddl Pmi che alleggeriscono la responsabilità dei brand; sì a una responsabilità solidale piena; più controlli ispettivi lungo la filiera, anche con indici di congruità per individuare i subappalti a rischio; applicazione rigorosa del Contratto nazionale in ogni segmento; tracciabilità etica con certificazione del rispetto dei diritti in ogni fase della produzione.
Il nuovo fronte di scontro: il Ddl Pmi e il rischio del “salva committenti”
Nel pieno del dibattito politico, la Procura mantiene una linea formale morbida, chiedendo la consegna volontaria dei modelli 231 e degli audit. Ma non esclude misure più dure se i marchi non ripuliranno la filiera. E mentre la magistratura risale la catena degli appalti fino alla committenza finale – un fatto inedito – in Parlamento si discute un emendamento ribattezzato “salva committenti”, che secondo sindacati e attivisti rischia di alleggerire ulteriormente le responsabilità delle aziende capofila.
Per Abiti Puliti e per le organizzazioni sindacali questo cortocircuito è insostenibile. Il Parlamento, dicono, deve fermare la norma e rafforzare il principio della responsabilità solidale lungo tutta la filiera. Se un marchio guadagna dall’esternalizzazione, deve essere consapevole dei costi morali, economici e giuridici degli appalti da cui trae profitto.
“Serve una svolta”: la sfida per il futuro del made in Italy
L’inchiesta sui tredici brand arriva dopo mesi di commissariamenti, sequestri e operazioni antimafia che hanno coinvolto laboratori clandestini, catene infinite di subappalti e merce destinata ai marchi più prestigiosi. Un quadro che i carabinieri del lavoro denunciano da anni.
Ora l’Italia è davanti a un bivio: continuare a raccontare il made in Italy come un mito intoccabile o riconoscere che quell’eccellenza non può poggiare sulla negazione dei diritti. Servono più controlli, più trasparenza, applicazione reale del contratto nazionale e responsabilità diretta lungo la filiera. Campagna Abiti Puliti chiede una riforma radicale; i sindacati una svolta immediata.
Tra dieci giorni si riunirà il Tavolo della moda. Le aspettative sono alte, le richieste chiare: restituire dignità al lavoro, proteggere il made in Italy dal suo lato oscuro e fermare una competizione che premia l’illegalità. La scelta, oggi, non riguarda solo la giustizia o l’economia: riguarda la credibilità di un intero Paese.





























