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“Basta sfruttamento. Vogliamo una transizione giusta per il Made in Italy” è la petizione rivolta alla commissione Attività produttive della Camera, al parlamento e al governo lanciata dalla Campagna Abiti Puliti.
Due le richieste. La cancellazione dello scudo penale per le aziende capofila, in caso di caporalato nelle aziende subfornitrici, contenuto nel disegno di legge Pmi attualmente in discussione (C.2673), e l’introduzione di obblighi di controllo e gestione dei rischi (due diligence). E la riforma del settore moda basata sulla responsabilità di filiera e sulla transizione giusta, che protegga i lavoratori e l’ambiente.
Le stesse richieste avanzate con la mobilitazione di lavoratori e sindacati Cgil, Uil, Filctem, Uiltec, Fiom, Uilm, scesi in piazza per fermare lo scudo penale, una norma che deresponsabilizza i committenti e mette a rischio legalità e diritti.
A sostenere la petizione le prima 50 personalità del mondo accademico, dello spettacolo, della cultura, della società civile, a testimonianza del largo consenso all'abolizione dello scudo penale nella moda. L’iniziativa segue l'appello No al caporalato Made in Italy, che chiede la soppressione dell'art. 30 del disegno di legge e che è stato firmato da oltre 35 realtà, tra cui organizzazioni della società, sindacati e imprese.
“È arrivato il momento di trasformare la moda italiana in un settore giusto e compatibile con i limiti del Pianeta, che promuova sviluppo e benessere per tutti gli attori coinvolti - spiega Deborah Lucchetti, presidente di Fair e coordinatrice nazionale della campagna Abiti puliti -. Con la petizione vogliamo portare il messaggio forte e chiaro al parlamento e al governo: se la maggioranza crede veramente nel Made in Italy, lo dimostri proteggendone la qualità, non il sistema di sfruttamento”.
Secondo un sondaggio realizzato da Ivox per la Clean Clothes Campaign a dicembre scorso in sei Paesi europei (Austria, Belgio, Croazia, Finlandia, Italia, Paesi Bassi), con 6 mila partecipanti, emerge che anche nel nostro Paese c’è una crescente consapevolezza dell’impatto sociale e ambientale della moda. Il 71 per cento degli intervistati sa che il settore è tra i più inquinanti e contribuisce ai cambiamenti climatici, il 54 per cento conosce le condizioni di lavoro precarie lungo la filiera.
E ancora: Il 68 per cento crede che i problemi ambientali e sociali della moda si risolveranno se le persone faranno acquisti più consapevoli, ma l’83 ritiene anche che le leggi a tutela dei lavoratori e dell’ambiente siano insufficienti o non applicate.
“Il sondaggio conferma che gli italiani vogliono cambiare moda – conclude Lucchetti -, e vogliono farlo a partire da regole chiare e responsabilità delle aziende, non solo dai comportamenti dei consumatori”.

























