Amman Ullah è arrivato in Italia dieci anni fa. Per cinque anni ha cucito borse in una pelletteria gestita da imprenditori cinesi. “Facevo tredici ore al giorno e prendevo 1.100, 1.200 euro al mese”, racconta. Nessun rispetto dei contratti, nessuna tutela, nessuna sicurezza.

Quando si ammala e finisce in ospedale per due mesi, tutto cambia. “Sono tornato e il capo ha detto: ‘Non c’è lavoro. Via!’”. In un attimo spariscono salario, casa, stabilità. “È stato molto difficile. Ho anche la mia famiglia qui, senza un lavoro non c’è più niente”.

Senza alternative, Amman si rivolge alla Cgil. “Mi hanno aiutato a trovare una casa e un nuovo lavoro”. Oggi è impiegato in un’altra pelletteria, con un contratto regolare, ferie e stipendio regolare. “Ora va bene. Mio figlio va a scuola, ho una casa e un lavoro. Mi sento tranquillo”.

La sua storia è stata raccolta a Firenze, durante la mobilitazione contro lo scudo penale per le capofila della moda: la norma che riduce la responsabilità delle imprese committenti lungo la filiera. Una zona grigia dove continuano a proliferare capannoni fantasma, turni massacranti e salari fuori legge. Significa lasciare lavoratori come Amman soli davanti agli abusi.

La filiera moda muove ricchezza e creatività, ma troppo spesso si regge sul lavoro invisibile di migliaia di persone senza voce. “Prima per me era molto difficile. Ora va bene”, ripete Amman. Il rischio, denunciato in piazza, è che senza controlli efficaci e responsabilità chiare quel “prima” continui a essere la normalità.