Nel reparto fantasie di controllo spuntava il 45-bis, cesellato con zelo da Gelmetti, Mennuni e Nocco. I tre moschettieri di Fratelli d’Italia avevano avvistato l’incubo nazionale. Non i salari ridotti a bruma. Non i turni che scavano le costole. Il vero allarme era lo sciopero, troppo libero per i gusti dell’ingegneria politica. L’idea trasformava la protesta in un appuntamento da prenotare, quasi un trattamento estetico del malessere civile.

Poi arriva ciò che non ti aspetti: Gelmetti fa un passo indietro. Ritira l’emendamento con un sospiro che pare meditazione zen. Tema complesso, tempo insufficiente, condizioni non mature. Un inchino alla gravità del contesto, mentre già prepara un disegno di legge più strutturato. Una promessa dal retrogusto di minaccia garbata. Tornerà, dice. Meglio armato, più ordinato, più pronto a incastrare la protesta in un ingranaggio cosmetico.

Il senatore però ci regala la teoria del secolo. Lo sciopero minore paralizza tutto. Un dumping del dissenso che manda in tilt aziende altrimenti innocenti, costrette a tagliare servizi come in un romanzo catastrofico. Gli utenti vittime, le imprese martiri finanziati dallo Stato. Una visione dove la protesta è un guasto tecnico. Serve un equilibrio, ripete, invocando una geometria sociale che addomestichi il conflitto e lo renda compatibile con la serenità del potere.

Il vecchio 45-bis già assaporava quel mondo. Un diritto immacolato sulla carta e svuotato nei fatti. Una protesta prevista, misurata, sterilizzata. Burocrazia al posto della voce. Ora il ritiro sfila come un gesto saggio, ma assomiglia a un segnaposto. Una pausa per affilare meglio l’idea. Un intervallo tra un modulo e l’altro.

Alla fine rimane un quadretto grottesco. Chi progetta regole per incasellare la protesta si ritrova davanti un paese che gli cambia le etichette mentre parla. Ogni nuova trovata si accartoccia da sola, come se la realtà avesse deciso di sabotare l’autore. E il bello è che non serve neanche contestare. Basta lasciarli parlare.