Esther Calvino, moglie di Italo, dopo le Lezioni americane curò e fece pubblicare nel 1991 anche la prima edizione di Perché leggere i classici, dove l’autore italiano nato a Cuba ci regala alcune definizioni fulminanti, tra cui questa: “Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso”.

Nel corso di questi quarant’anni dalla sua morte è lo stesso Calvino, forse malgrado lui, a esser divenuto un classico, suscitando qualche prurito in certa critica letteraria e in alcuni scrittori contemporanei, che non hanno accettato fino in fondo (chissà perché) questo successo postumo, dovuto in particolare al suo ingresso nel mondo delle letture scolastiche con la trilogia degli antenati (Il visconte dimezzato, Il barone rampante, Il cavaliere inesistente) e, in ambito accademico ma non solo, grazie alle Lezioni americane, quasi un testamento incompiuto, ancora oggi di spiazzante attualità.

Basta soffermarsi, tralasciando per un momento i relativi contenuti, ai titoli dati alle conferenze che Calvino andava preparando: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità, oltre l’ultima ricavata dai manoscritti preparatori delle Northon Lectures, dal titolo provvisorio Consistency, tradotta in appendice all’edizione italiana con Cominciare e finire.

Ogni volta che torno alle Lezioni americane, a ciascuna di esse si affianca quasi naturalmente un interrogativo, declinato alla nostra contemporaneità: cosa significa oggi Leggerezza, e quanto ne avremmo bisogno? Quanto incide il concetto di Rapidità nel nostro mondo, nel bene, forse soprattutto nel male? Dove è andata a finire l’Esattezza, quel tentativo quotidiano di fare le cose nella maniera dovuta, con i tempi dovuti, senza farsi travolgere dalla lezione precedente, vale a dire da una richiesta sempre più soffocante di sbrigare le cose, qualsiasi cosa, nella maniera più rapida possibile?

E ancoa: perché la nostra si è trasformata nell’epoca della Visibilità, un’epoca in cui se non si è visibili, dall’ormai datato quarto d’ora di Andy Warhol alla grande abbuffata social, praticamente non si è nessuno? Come siamo arrivati a considerare la Molteplicità come altra componente irrinunciabile delle nostre vite, vite forzatamente molteplici, multitasking, che devono imparare a fare di tutto e di più, per alimentare speranze se non di successo almeno di sopravvivenza, visto che sempre più spesso un lavoro non basta più per sopravvivere?

Tralasciando l’ultima lezione, già queste cinque aprono dunque squarci considerevoli in questo prossimo millennio, come lo stesso Calvino avrebbe voluto titolarle (Six Memos for the next millennium), ora non più prossimo ma ben presente, anzi ogni giorno più ingombrante. Ecco perché la scrittura di Calvino ci parla ancora, ed ecco il motivo per cui leggere oggi quanto scrivesse nel secolo scorso, nel millennio scorso, e in quale modo avesse deciso di riempire di significato quei significanti così evocativi, se non profetici, oggi sia più stimolante che mai, nel sempre più complesso esercizio di codificazione di quanto ci accade attorno.

Volendo entrare nei meandri di quei significati, chi ha ancora tempo da dedicare a quel tipo di lettura che diventa studio può divertirsi a estrapolare le innumerevoli citazioni e i riferimenti di carattere letterario, più in genere culturali, contenuti in ognuna delle lezioni.

Prendendo l’ultima, la Molteplicità, nell’ordine troviamo: Carlo Emilio Gadda; i filosofi Spinoza e Leibniz; James Joyce, Robert Musil e L’uomo senza qualità; Marcel Proust e la sua Recherche; Johann Wolfgang Goethe, e subito dopo Hans Blubmenberg per Die lesbarkeit der welt; il poeta Novalis e il Kosmos di Alexander Von Humboldt; Stephane Mallarmé e Gustave Flaubert, che a sua volta ci porta a Raymond Queneau. Poi arriva Thomas Mann e La montagna incantata, Dante Alighieri con la sua Divina commedia, cui segue il suo cultore Thomas Stearns Eliot. E ancora, l’anima inquieta del francese Alfred Jarry, Michail Bachtin e i suoi riferimenti a Platone, Rabelais e Dostoevskij. Nelle ultime pagine incontriamo un Paul Valery più saggista e prosatore che poeta, Jorge Luis Borges (amatissimo da Calvino), La vie mode d’emploi di George Perec, per concludere, proprio nell’ultima frase, ricordando due classici della letteratura latina, Ovidio e Lucrezio, già protagonisti nella Leggerezza. Solo approfondendo questa lezione, ci sarebbe materiale da studiare per una vita intera.

Se dunque Italo Calvino, in questi quarant’anni dalla sua morte e dalle Lezioni americane, sia irrimediabilmente divenuto un classico che, per usare un’altra sua definizione, “non ha mai finito di dire quel che ha da dire”, è proprio in virtù della ricchezza infinita della sua scrittura, della sua sperimentazione letteraria, della sua curiosità nei confronti della cultura tutta. I critici (e gli scrittori) infastiditi se ne faranno una ragione.