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Dopo la prima settimana di negoziati, le questioni più controverse del Cop30 sono ancora tutte sul tavolo. Non c’è una soluzione su come ridurre la distanza fra gli Ndc (Nationally cetermined contributions, gli impegni dei Paesi per la decarbonizzazione) e quello che sarebbe necessario per onorare l’impegno di 1,5 gradi centigradi.
Restano posizioni divergenti sulla responsabilità finanziaria dei Paesi sviluppati verso il Sud globale sulle metodologie di rendicontazione delle emissioni. E diversi Paesi in via di sviluppo mettono in discussione misure unilaterali come il meccanismo europeo Cbam (Carbon border adjustment mechanism) che appare come una forma di protezionismo che penalizza le economie emergenti. Questi temi, inizialmente esclusi dall’agenda, sono cruciali e tornano con forza nei tavoli negoziali.
Sul versante adattamento (misure necessarie a ridurre gli impatti del riscaldamento globale), torna la questione finanza. Molte delegazioni chiedono di triplicare i finanziamenti destinati all’Obiettivo globale sull’adattamento, richiesta più che lecita considerata che il nuovo rapporto Global climate risk index di Germanwatch stima che tra il 1995 e il 2024 si sono verificati 9.700 eventi meteorologici estremi che hanno causato oltre 832 mila morti e perdite economiche per circa 4.500 miliardi di dollari.
I negoziati sul tema della giusta transizione vanno avanti con profonde divergenze, a partire dalla discussione sulla creazione del Bam (Belem action mechanism), il nuovo meccanismo di azione rivendicato dai sindacati e da tutto il movimento per la giustizia climatica.
Il Bam è sostenuto prevalentemente dai Paesi in via di sviluppo che lo considerano necessario per rendere operativa l’equità, il principio di responsabilità comuni ma differenziate e per garantire il diritto allo sviluppo. Dall’altra parte Unione Europea, Regno Unito, Norvegia, Giappone, Australia, Canada, Svizzera/GEI considerano inutile il nuovo meccanismo, ma soprattutto lo temono perché sono consapevoli che per agire per una giusta transizione servono risorse finanziarie.
A parole, sembra esserci un ampio accordo su una giusta transizione incentrata sulle persone, inclusiva e partecipativa, sull’importanza dell’istruzione, delle competenze, della protezione sociale e dell’inclusione di lavoratori, donne, giovani, popolazioni indigene e gruppi vulnerabili, e che garantisca l’accesso universale all’energia pulita, affidabile e conveniente (inclusa la cucina pulita).
L’elemento di frattura più forte riguarda il processo di transizione energetica: da una parte Regno Unito, Unione Europea, alleanza indipendente America Latina e Caraibi (Ailac), alleanza dei piccoli stati insulari che sostengono che una giusta transizione energetica debba prevedere l’abbandono dei combustibili fossili per rispettare l’obiettivo di 1.5 gradi centigradi, mentre dall’altra G77+Cina, Like-minded developing countries (Lmdc), Gruppo Arabo, India, Russia e Uganda ritengono inaccettabile ogni riferimento all’eliminazione, anche graduale, dei combustibili fossili, perché non accettano l’imposizione di modelli che potrebbero limitare il loro sviluppo.
Dalla discussione emerge la centralità della finanza, in particolare di una finanza riparativa del Nord verso il Sud globale, e la necessità di una discussione politica complessiva sulla giusta transizione, intesa nel senso di un profondo cambiamento di sistema, che porti a sintesi le questioni centrali dell’azione climatica sacrificate in estenuanti discussioni tecniche e procedurali.
L’ambizione va praticata con le azioni, con la coerenza delle politiche, non con le parole. Molti Paesi occidentali si candidano alla “leadership climatica” mentre espandono le trivellazioni petrolifere e di gas e approvano nuove infrastrutture fossili in nome della “transizione”, della “sicurezza nazionale”, della “neutralità tecnologica”, se non addirittura per il “benessere sociale”.
Il nostro governo è un campione in questa manipolazione della realtà. Il Bam è uno strumento necessario per far convergere la discussione politica sulla giusta transizione, perché sia coordinata e giusta, finanziata senza debito e guidata dalle comunità più colpite dalla crisi, per riallineare la cooperazione climatica attorno alla giustizia, non al profitto, per garantire tutela e promozione dei diritti dei lavoratori.
Senza radicare i diritti del lavoro al centro della transizione i lavoratori subiscono il ricatto occupazionale, trovano più difficile sostenere l’azione climatica e sono strumentalizzati dagli attori politici e dalle aziende, interessati sono dai loro vantaggi a breve termine.
La giusta transizione deve garantire il rispetto dei diritti definiti e concordati dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil): libertà di associazione, diritto dei lavoratori di organizzarsi collettivamente e di costituire o aderire a un sindacato, contrattazione collettiva, protezione sociale universale in caso di perdita del posto di lavoro e diritto alla salute e sicurezza anche in relazione agli impatti climatici, come inondazioni o caldo estremo.
Il Bam è il tassello mancante nell’architettura della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) per collegare le politiche multilaterali sul clima alla giustizia sociale, per garantire una reale partecipazione di lavoratori, comunità indigene, giovani, movimenti e associazioni, per dare voce a chi protegge il diritto alla vita, al lavoro, alla giustizia, alla pace.
Simona Fabiani è responsabile Politiche per il clima, il territorio, l’ambiente e la giusta transizione Cgil nazionale






















