È sempre un evento quando la ministra Roccella decide di pensare in pubblico. Una specie di esperimento acustico: si lancia un concetto nel vuoto e si misura quanto rimbomba. L’ultima eco è arrivata dal Cnel, dove ha spiegato che le gite ad Auschwitz servivano solo a dire che l’antisemitismo era una cosa da fascisti. Come se la Shoah avesse bisogno di un ufficio stampa.

C’è da ammirarla, la ministra, riesce a rendere offensiva perfino la parola “riflessione”. Le università, dice, sono “luoghi di non-pensiero”. Dev’essere per questo che lei ha trovato altrove il suo. In qualche sottoscala del dogma, tra un rosario e un cilicio. Intanto gli studenti diventano inconsapevoli, ma colpevoli. E la libertà di dissentire un vizio da estirpare.

In fondo il suo è un progetto educativo innovativo: la pedagogia della rimozione. Insegna a non ricordare, a sospettare della storia, a confondere il genocidio con l’opinione. È l’epoca della memoria “snellita”, non più un dovere civile, ma un eccesso calorico del pensiero.

Poi, come nei drammi classici, arriva il controcanto. Liliana Segre, sopravvissuta all’indicibile, che con una sola frase scrosta la patina ideologica: “La memoria della verità storica fa male solo a chi conserva scheletri negli armadi”. Sipario.

Eppure Roccella insiste, convinta di aprire nuove pagine. Ma le pagine, per bruciare, devono prima esistere. E la sua idea di cultura somiglia sempre più a un falò senza fuoco, illuminato solo dal bagliore del proprio imbarazzo.