Oggi la marcia della Pace da Perugia ad Assisi attraversa l’Umbria come un fiume di passi, cartelli, voci. È la stessa marcia nata più di sessant’anni fa, quando Aldo Capitini la immaginò come un’azione collettiva di coscienza civile. Una marcia semplice e radicale: camminare insieme per dire no alla guerra, per affermare la pace come diritto universale, per coltivare la nonviolenza come progetto politico.

Ma oggi, mentre le bandiere arcobaleno si muovono nel cuore d’Italia, è impossibile fermarsi ad Assisi. La marcia continua idealmente verso est, oltre l’Adriatico, fino a Kiev. Lì in Ucraina, da più di milletrecento giorni, la guerra è quotidiana. Bombe su case, scuole, centrali elettriche. Un popolo che resiste e un’Europa che sembra aver accettato il fumo nero come nuova normalità.

E poi scende più a sud, verso Gaza. Tra le macerie e i corpi senza nome, tra gli ospedali polverizzati e le famiglie senza più case. Lì, dopo due anni di assedio e di bombardamenti che hanno ridotto in cenere una terra e un popolo, la notte tra l’8 e il 9 ottobre si è aperto uno spiraglio. Israele e Hamas hanno firmato la prima fase di un accordo per il cessate il fuoco: l’apertura immediata di cinque valichi per gli aiuti umanitari, il rilascio di tutti gli ostaggi in vita in cambio di prigionieri palestinesi e il parziale ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia.

Una tregua fragile, certo. Ma anche un respiro dopo due anni di genocidio denunciato dalle organizzazioni internazionali, di fame usata come arma, di violazioni sistematiche del diritto umanitario. Amnesty International ha chiesto che questo cessate il fuoco sia solo l’inizio di un percorso di giustizia. La fine dell’occupazione, la cessazione dell’apartheid, il riconoscimento dei diritti del popolo palestinese.

La marcia allora si allunga ancora. Da Perugia ad Assisi, da Assisi a Kiev, da Kiev a Gaza e da Gaza a ogni luogo in cui la vita è calpestata in nome del potere. Potrebbe passare da Aleppo, da Khartoum, da Sanaa. Potrebbe arrivare fino ai confini invisibili dove i migranti affogano nel Mediterraneo o vengono respinti nel deserto. Potrebbe passare per le fabbriche che producono armi e per i Palazzi dove si firmano i contratti che le finanziano. Potrebbe fermarsi davanti alle scuole che insegnano la pace e davanti ai tribunali che negano giustizia.

Questa marcia infinita è l’immagine del mondo che vogliamo costruire. Un mondo dove il lavoro, la dignità, la solidarietà e la cura contano più della forza. Dove la parola “pace” non è un sogno da portare in corteo una volta l’anno, ma una pratica quotidiana, fatta di diritti, accoglienza, uguaglianza. Oggi camminiamo da Perugia ad Assisi. Ma la direzione è chiara: dobbiamo arrivare molto più lontano.