Due morti a Washington e il mondo si scuote dal torpore. Due funzionari dell’ambasciata israeliana vengono uccisi e la notizia rimbalza ovunque, istantanea. Piovono dichiarazioni accorate, condanne bipartisan, bandiere abbassate e allarmi mediatici a sirene spiegate. Improvvisamente, pare che la sofferenza umana abbia un valore. Ma solo se porta un abito formale e un lasciapassare diplomatico nel taschino.

L’attentatore viene fermato e la diagnosi è fulminea: “Terrorismo antisemita”. Trump parla di “atrocità intollerabili”, Netanyahu punta il dito: “È il frutto dell’odio scagliato contro di noi”. Ma forse è anche il risultato di mesi in cui lui stesso ha concimato il terreno con retorica tossica. Cinquantamila vite spezzate a Gaza sono finite sotto le macerie e sotto le narrazioni militariste del premier, che da tempo dipinge ogni dissenso come un attacco e ogni palestinese come una minaccia.

La violenza non si assolve mai, ma può essere letta nel suo contesto. Nella Striscia si muore ogni giorno, nel silenzio ovattato dell’indifferenza. Ma bastano due vittime in giacca e cravatta per smuovere governi e redazioni. Il dolore si misura in privilegi: se sei palestinese, sei nota a piè di pagina; se sei ambasciatore, diventi prima serata.

I media si risvegliano solo quando l’Occidente si taglia un dito. Per mesi hanno ingoiato, senza batter ciglio, una carneficina ad orologeria. Ora però lanciano titoli indignati, evitando di interrogarsi su chi ha autorizzato il lessico dell’odio. Netanyahu l’ha fatto con metodo: ha trasformato il dibattito in guerra e adesso grida allo choc per il contraccolpo.

Il fanatismo non nasce dal nulla. Germoglia dove il potere disegna bersagli e innaffia la rabbia. Chi gioca con la benzina non può stupirsi se qualcuno accende il fiammifero. Gaza è un rogo che brucia da mesi. E chi oggi piange due volti noti, ieri voltava lo sguardo davanti a decine di migliaia di anime invisibili.