La riforma della non autosufficienza definita nel 2023 era pensata bene: garantiva una legge quadro per migliorare davvero la condizione delle persone anziane e non autosufficienti in Italia. Questa riforma però è stata tradita: il governo Meloni a colpi di misure, sperimentazioni e provvedimenti discutibili ne ha svuotato il senso, non permettendo di fatto l’applicazione. Per capire cosa è successo, il percorso della legge e come intervenire ora, abbiamo fatto il punto con il segretario nazionale dello Spi Cgil Stefano Cecconi.

LA RIFORMA: PREVENZIONE E PROMOZIONE DEL BENESSERE

“Le cose stanno così – esordisce Cecconi -: siamo riusciti a conquistare una legge quadro a favore delle persone anziane non autosufficienti all’interno del Pnrr, si tratta della legge 33 del 2023 che abbiamo costruito insieme al governo precedente. Il governo Meloni non ha poi avuto il coraggio di modificarla”. Una norma che prevede diversi obiettivi condivisibili: “Il primo è considerare la non autosufficienza e la vita degli anziani come un problema da affrontare in termini di prevenzione e benessere, cioè non limitarsi alla cura quando arriva la non autosufficienza ma fare proprio promozione del benessere. Una parte della legge era dedicata a questo”.

IL DIRITTO AD ESSERE CURATI IN CASA

L’altra parte si rivolgeva invece alle persone che a un certo punto della vita si trovano in condizione di non autosufficienza: “Il testo propone di privilegiare il diritto a vivere ed essere curati in casa propria, sostenendo in vari modi la possibilità di cura domiciliare. Spesso – riflette il sindacalista – i non autosufficienti hanno bisogno di una modesta risposta assistenziale, come la cura dell’igiene o la pulizia della casa, e ancora l’accompagnamento”.

La terza parte della riforma voleva cambiare le condizioni di vita nelle strutture residenziali: “Nel Covid avevano mostrato tutti i limiti – spiega -: sono istituzioni totali, con centinaia di anziani ammassati in strutture che replicano la struttura fordista, ossia la ‘fabbrica dei vecchi’. Si proponeva di offrire invece del posto letto un posto di vita, evitando l’istituzionalizzazione in centri che seppure ben organizzati sono destinati a rinchiudere le persone”. Infine c’era il capitolo riguardante i lavoratori: “Una parte era dedicata alla qualificazione del lavoro di cura, per esempio alla valorizzazione delle badanti”.

IL TRADIMENTO: DECRETO ATTUATIVO SENZA RISORSE

Tutto ciò era compreso nella legge delega, poi è stato varato il decreto attuativo che avrebbe dovuto dare gambe alla riforma: le ambizioni erano giuste ma povere, perché come nota Cecconi “tutte queste cose positive si pensava di farle senza fondi”. Quindi interviene il decreto 29: “Non fa altro che ripetere gli stessi principi della legge di riforma, rinviando a una serie di ulteriori decreti per concretizzare tali principi. Alcuni sono arrivati, ma tutti senza risorse aggiuntive e senza vincoli veri per gli enti attuatori”. È in questa fase che si comincia a sentire concretamente la mano del governo Meloni, che decide di avviare quattro sperimentazioni. I problemi aumentano sempre di più.

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LE SPERIMENTAZIONI FALLIMENTARI DEL GOVERNO MELONI

Così il segretario nazionale dello Spi: “La prima sperimentazione riguarda il nuovo sistema di riconoscimento della disabilità e non autosufficienza, che viene affidato totalmente all’Inps. Si restringe molto la possibilità di richiesta, ridimensionando il ruolo dei patronati: si introduce un certificato di richiesta complesso da compilare per i medici, che ha reso la vita più difficile e alzato le tariffe, portando un certificato fino a 200 euro”. In breve tempo la difficoltà del sistema ha creato una debacle: “C’è stato il crollo del 30% di domande presentate all’Inps – prosegue -: la sperimentazione al momento riguardava nove Province a cui se ne sono aggiunte altre undici, quindi venti Province dimostrano che il sistema del governo con l’Inps sta riducendo l’accesso ai diritti dei disabili. Migliaia di persone non avranno le tutele previste”.

Un’altra sperimentazione targata Meloni riguarda l’accesso a un progetto di vita e un piano di assistenza integrato per i più anziani. In pratica cosa avviene? “Dopo che ti rivolgi all’Inps per ottenere i tuoi diritti, poi avrai un secondo livello di bisogni da risolvere legati alla vita quotidiana, per cui ti rivolgi a un’entità territoriale del welfare. La sperimentazione prevede che un disabile fino a 65 anni presenti la domanda di progetto di vita a un’unità valutativa multidimensionale composta da professionisti, medici e altre figure, che valuteranno qual è il progetto più adatto da aggiungere alle misure statali già riconosciute. Questo è già partito per gli under 65, invece per i più anziani partirà dal 1° gennaio 2026: anche gli over 70 dovranno rivolgersi alle unità valutative per accedere al piano di assistenza, per esempio alla decontribuzione delle badanti e così via”.

Quando la sperimentazione sarà a regime in tutta Italia, chiaramente l’Inps non sarà in grado di recepire tutte le domande. L’anno prossimo inoltre dovranno essere in funzione le unità multivalutative, che si trovano dentro le Case della comunità; un meccanismo che può funzionare solo se ci sono le figure adatte, professionisti e valutatori, che oggi mancano.

PER LE TUTELE C’E’ UNA CORSA AD OSTACOLI

L’esecutivo ha stravolto la proposta del sindacato. Così Cecconi: “Nel 2025-26 ha previsto l’erogazione di un assegno di cura di 850 euro aggiuntiva all’indennità di accompagnamento, riservata però una platea ristrettissima di ultra 80 anni con Isee di 6.500 euro e un bisogno assistenziale molto alto”. Il risultato, come inevitabile con questi requisiti, è stato un flop: “Hanno presentato domanda 5.000 persone su una platea teoricamente disponibile di 25.000. Tra questi appena il 41% ha ricevuto una risposta positiva: sono numeri offensivi, considerando che i non autosufficienti in Italia sono circa 4 milioni”.

A quel punto arriva la frettolosa e furba marcia indietro del governo: “Riconoscendo il flop delle domande ha tagliato drasticamente i fondi 2025, ma quei soldi erano prelevati dal Fondo per la non autosufficienza. Dove sono finiti?”, si chiede Cecconi. Poi si è provato a recuperare le domande nel 2026 elevando l’Isee a 12.000 euro per l’accesso, ma con vincoli sempre molto stretti sull’età e i bisogni. In breve: “Una corsa ad ostacoli, non può essere questa la soluzione per i non autosufficienti”.

RIPENSARE LA TRANSIZIONE DEMOGRAFICA

In definitiva, per Cecconi “la riforma era pensata bene, ma poi bisogna metterci le risorse: se il fisco e la decontribuzione servono per sostenere la disabilità e la non autosufficienza si crea un sistema fiscale virtuoso, altrimenti si rischiano le assicurazioni private o perfino la rinuncia alle cure”. In generale è tutto il sistema che deve cambiare: “La sconvolgente transizione demografica, con crollo delle nascite e crollo della mortalità, esige una risposta che non potrà essere solo di welfare: deve essere anche socio-economica, ovvero bisogna trovare il punto di equilibrio con un’economia che affronti la questione non solo con soluzioni tampone”.

Infine c’è un grande tema: “I gruppi di investimento finanziario stanno intervenendo per organizzare il business dei posti letto, per loro gli anziani sono ottimi clienti per comprare prodotti scadenti, cioè un letto in una casa di riposo spesso triste e poco gentile, malgrado l’impegno degli operatori. È un sistema che si organizza non per dare libertà e diritti, ma per rinchiudere in istituzioni totali”. Conclude quindi Cecconi: “O riusciamo a costruire un modello di welfare e società che affronta la transizione demografica in termini di crescita collettiva e benessere, oppure siamo destinati ad essere travolti”.