L’invecchiamento della popolazione italiana continua. Come attestato dai numeri, per esempio quelli dell’Ocse, la tendenza nel nostro Paese è quella di diventare sempre più anziani: come conseguenza ci saranno sempre meno lavoratori e più pensionati. Questo scenario, già presente e in crescita nel futuro prossimo, pone una serie di necessità inedite, nuove sfide da affrontare con intelligenza e adottando le formule giuste. Ne abbiamo parlato con la segretaria generale dello Spi Cgil, Tania Scacchetti.

Partiamo proprio dai dati. Cosa sta succedendo secondo la tua lettura?

Siamo di fronte a una ricomposizione nella struttura della popolazione. Nel 1951 in Italia gli individui sotto i 30 anni erano il 51%, nel 2040 saranno il 24% della popolazione. Verranno praticamente dimezzati. All’interno di un quadro di calo demografico, poi, sempre nel 2040 gli ultrasessantacinquenni supereranno il 35%, ovvero diventeranno un terzo della popolazione. Attualmente sono circa il 24%. Le cifre sono evidenti e raccontano con chiarezza l’invecchiamento. Questo da un lato ha un aspetto positivo, perché cresce la longevità.

E dall’altra parte invece?

Ci sono grandi effetti di tipo occupazionale su tutta la popolazione. Nel 2040 per ogni persona sopra i 65 anni ci saranno solo due persone in età lavorativa: quello che chiamiamo indice di dipendenza salirà dal 38% al 60%, sempre nella previsione del 2040. Già oggi ci stiamo misurando col paradosso di avere un calo di offerta lavorativa in alcuni settori, come denunciano le stesse imprese.

Davanti a queste previsioni qual è la ricetta da adottare? Cosa bisogna fare?

Uno dei passi per bilanciare gli effetti dell’invecchiamento è aumentare i tassi di occupazione. In Italia sono particolarmente bassi, in particolare per i giovani e per i Neet, coloro che non studiano né lavorano. Poi c’è un altro tema, che riguarda direttamente anche noi dello Spi: l’allungamento della permanenza a lavoro.

È il grande nodo di quando andare in pensione. Su questo che giudizio ti senti di dare?

Nel Paese c’è già la spinta a restare a lavoro quando si matura il diritto alla pensione, ma questo premia sempre gli impieghi più remunerativi, più soddisfacenti e meno gravosi. Nella mobilitazione del sindacato dei pensionati noi poniamo il tema del diritto previdenziale: questo significa evitare la forzatura di legare l’età della pensione all’aspettativa di vita. In altre parole il diritto ad andare in pensione deve restare intatto. La soglia attuale dei 67 anni è sufficiente, poi ognuno può fare le sue scelte ma non deve essere costretto dalla legge. Senza contare che, come sosteniamo da sempre, si può continuare a dare il proprio contributo in altre forme: attività di volontariato, partecipazione politica, partecipazione al welfare, come già avviene.

Tornando al macrotema della longevità, dicevi che il fenomeno può avere due volti. Ci spieghi meglio?

La curva di cambiamento della popolazione propone temi non adeguatamente affrontati: il primo è l’economia della cura. L’aumento della longevità in sé non è sempre neutro: può essere positivo se significa che la maggioranza del tempo in più si vive in buone condizioni, ecco perché le politiche hanno un impatto preciso sulla transizione demografica. Se hai un reddito dignitoso, se ti puoi curare, se hai una bella vita sociale, se non vieni escluso dalle innovazioni tecnologiche allora l’aspettativa di vita è certamente positiva. Se invece si vive più a lungo ma in condizione di esclusione sociale, la longevità è una brutta notizia, sia per il singolo che per tutta la società.

Allora quali sono le risposte più opportune?

Le risposte giuste sono più reddito, potere d’acquisto delle pensioni, la sanità universale, pubblica e garantita. L’altra chiave è l’invecchiamento attivo, bisogna essere in grado di incentivare tutto ciò che favorisce la partecipazione degli anziani e delle anziane alla vita sociale e politica. Infine va affrontato il tema della non autosufficienza.

Come?

La non autosufficienza oggi è ancora un problema privato, nel senso che le famiglie lo affrontano in solitudine, le misure di welfare coprono solo una parte delle spese. Si impone allora il tema dell’economia di cura e dell’investimento in queste professioni: le famiglie saranno più piccole, ci saranno meno parenti, quindi occorre prevedere risorse adeguate sulle occupazioni più sociali, rendendo la cura un settore economico più forte.

In chiusura, ti sembra che le scelte odierne vadano in questa direzione?

Purtroppo no. Siamo davanti a un’economia che sposta risorse sul riarmo e sulla difesa, tutto ciò rischia di colpire ancora di più la complessa transizione demografica. Vediamo intorno a noi una grande miopia da parte della politica e delle imprese.

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