Il 43,5 per cento dei nuovi ingressi nel mondo del lavoro nel 2022 sono stati con contratti atipici o accordi informali, lavoro intermittente o addirittura non conoscenza del contratto. Nel 2011 la quota era ferma al 18,7. A questi si aggiunge un 22,3 per cento di occupazioni a tempo determinato, era 23,8 nel 2011. Quelli a tempo indeterminato si sono attestati sul 30,5 per cento contro il 26,2 del 2011.

È la fotografia dei cambiamenti del mercato del lavoro che ci sono stati dal 2011 al 2022 scattata dall’Inapp, Istituto per l’analisi della politiche pubbliche, nel Rapporto Plus 2023.

Giovani più precari

La situazione, sottolinea la ricerca, colpisce in particolare i giovani, soprattutto nel delicato passaggio tra scuola e lavoro. I 18-29enni lamentano soprattutto la scarsa qualità delle offerte di lavoro: per uno su due le proposte sono brevi o sottopagate, per il 37 per cento (che sale al 45 tra i 18-24enni) le proposte prevedono mansioni modeste e a rischio di sotto-inquadramento, mentre il 36,5 dichiara che non ci sono servizi di inserimento al lavoro adeguati e che si è sentito solo nel passaggio tra scuola e lavoro.

In pensione più tardi

“Il rapporto Inapp conferma quello che la Cgil dice da tempo – dichiara Maria Grazia Gabrielli, segretaria confederale Cgil -. Cresce il tasso di occupazione e questo è incontrovertibile, ma sembra anche l’unico dato che importa, che i media sottolineano, che si ripete come un mantra. Ciò che si tace è perché aumenta, come aumenta e che cosa. Basta una percentuale in più per essere soddisfatti e ignorare i problemi del mercato del lavoro. Il tasso di occupazione sale perché si va in pensione più tardi, per effetto delle riforme, quindi ci sono più uomini e donne che permangono nel posto di lavoro. Inoltre, perché si registra un calo demografico, un numero minore di persone rispetto al passato che è in età di lavorare. Inoltre tra gli occupati vengono conteggiati anche coloro che sono in cassa integrazione. E secondo l’Istat il numero di ore di cassa è decisamente alto”.

Condizioni di lavoro e di vita

Quindi una permanenza più lunga nel mercato di lavoro, che varia a seconda delle leggi sulla previdenza, e un aumento degli occupati che non sempre corrisponde a un aumento dei posti. Poi c’è l’altra questione: coloro che lavorano, a quali condizioni lavorano? In Italia ci sono 4 milioni e 238 mila di part time, quali il 58 per cento è involontario, ci sono i collaboratori e gli autonomi che non riescono a raggiungere un reddito dignitoso e hanno pochi diritti, ci sono gli intermittenti, con i loro compensi miseri e l’estrema flessibilità che devono garantire.

“Nella nostra campagna sulla precarietà abbiamo messo in fila tutte le tipologie – aggiunge Gabrielli -, e abbiamo detto e ripetuto che c’è chi pur lavorando rimane povero, pur lavorando continua ad avere un reddito basso, che non ha tutele rispetto alla malattia o alla diminuzione dell’attività. Povertà e precarietà pesano sulla vita quotidiana delle persone, sulle scelte, sul futuro previdenziale. Ecco, quando si parla di occupazione e di dati e di crescita, bisognerebbe tenere conto di questi elementi: come si può rendere stabile, sicuro e di qualità il lavoro”.

Undici anni di peggioramenti

L’istantanea scattata dall’Inapp propone un’immagine con luci e ombre, che nel confronto temporale evidenzia una forte staticità delle condizioni occupazionali. Il 98,9 per cento degli occupati nel 2021 permane in occupazione a distanza di un anno, oltre 13 punti in più rispetto a quanto si registra osservando le transizioni tra il 2010-2011. Allo stesso tempo coloro che permangono nella disoccupazione, a distanza di dodici mesi, passano dal 58,4 del 2010-11 al 94,5 per cento del 2021-22. Inoltre, se nel biennio 2010-11 il 10,6 per cento degli inattivi o studenti accedeva al mercato del lavoro, a distanza di un decennio questa quota crolla allo 0,4 per cento.

Aumentano i tempi determinati

E ancora: ai disoccupati hanno chiesto che tipo di contratto era il loro ultimo rapporto di lavoro. Il 39,8 per cento ha detto che nel 2011 era a termine, nel 2022 questa quota sale al 52,1 per cento. Mentre aveva un tempo indeterminato il 33,2 nel 2011, solo il 21,1 nel 2022.

“Questo dimostra che nonostante i numeri positivi, crescono i tempi determinati, cioè la precarietà – afferma Rossella Marinucci della Cgil nazionale -. E che la lettura meramente numerica nasconde che sul lungo periodo c’è un cambiamento che va in direzione diversa. Lo ritroviamo in tutti i capitoli che la ricerca affronta: la precarietà del lavoro che si crea è reddituale, contrattuale e di vita e colpisce sempre le stesse categorie, giovani, donne, persone con vulnerabilità, con contesti sociali e familiari complicati. I segnali del mercato del lavoro che emergono sono positivi, ma si convalidano le caratteristiche negative. Non è inclusivo, è poco amico delle donne e dei giovani: quindi non è vero che sono pigri, ma hanno difficoltà oggettive a trovare lavoro”.

Interventi strutturali

Sono proprio questi i fattori sui quali bisognerebbe intervenire, mettendo in atto azioni multilivello, su più fronti e con provvedimenti strutturali e di prospettiva. Per tutta risposta, invece, si depotenziano le politiche attive a sostegno dell’occupazione, che sono più enunciate che praticate, si riduce il ruolo dei centri per l’impiego, non si punta come si dovrebbe su formazione e competenze. Non è un caso che secondo il rapporto Inapp, il 77 per cento degli inattivi e dei disoccupati che hanno trovato lavoro nell’arco di un anno (2021-2022) lo ha fatto attraverso canali informali e, in particolare le conoscenze, amici e parenti, autocandidature.

La politica dei bonus

“Il governo che fa, oltre a dire che c’è un problema? – conclude Gabrielli - L’unica strada che adotta è la politica dei bonus: nel decreto coesione le misure per aumentare l’occupazione, in particolare quella giovanile e femminile, non sono strutturali ma bonus, incentivi all’assunzione tra l’altro con scarse condizionalità sulla qualità. Anche le azioni precedenti avevano il respiro corto e hanno dimostrato di non avere efficacia nel creare occupazione, men che meno di qualità. Bisogna intervenire su tutti i livelli e su più fronti: aumentare la qualità dell’offerta e quindi dell’occupazione di un certo tipo, eliminare molte forme contrattuali precarie. Proprio queste ragioni ci hanno portato a proporre i quesiti referendari e alcune proposte di legge”.