Quattro milioni e 238 mila lavoratori in Italia hanno contratti part time. Di questi, il 57,9 per cento è involontario: è l’incidenza più alta di tutta l’Eurozona. Orario ridotto quindi, ma non per scelta. Per definire meglio questa tipologia di precarietà basti dire che il 74,2 per cento degli occupati a tempo parziale è donna, una su tre del totale delle lavoratrici.

Quanto guadagnano? 11.451 euro in media all’anno, ancora meno nel Mezzogiorno. Va peggio a chi ha un part time e anche un rapporto discontinuo: quando si verificano queste due condizioni il salario lordo si attesta sui 6.267 euro annui.

#laPrecarietàhaTroppeFacce

I numeri, fonte Istat, sono resi noti dalla Cgil nell’ambito della campagna social di sensibilizzazione e informazione “La precarietà ha troppe facce. Combattiamola insieme”, promossa insieme alle categorie sindacali per alzare l’attenzione sulla questione della qualità e della dignità del lavoro e della condizione dei redditi. Facce e storie di persone che hanno condizioni occupazionali e di vita difficili, maggiore esposizione a rischi di salute e sicurezza sul lavoro, modeste prospettive pensionistiche.

Non è una scelta

“Part time in Italia vuol dire basse retribuzioni, grande flessibilità per cui l’orario può essere spostato con il minimo preavviso, cosa che lo rende poco compatibile con altre esigenze personali o lavorative, e conseguenze su tutto il resto, dalle ferie ai permessi, dalla tredicesima alla disoccupazione – precisa Rossella Marinucci, Cgil nazionale -. L’orario ridotto è anche l’unica opportunità per 6 lavoratori su 10: l’Istat lo definisce proprio così, involontario. E quel 40 per cento che lo sceglie, lo fa per via dei carichi di famiglia, figli, persone care non autosufficienti. In pratica, perché è l’unico strumento di conciliazione disponibile, data l’assenza di servizi, cosa che spiega anche l’alta incidenza di questa tipologia di contratto tra le donne. Dentro c’è una questione tutta femminile”.

Part time è donna

Quindi non si può parlare di part time senza darne una lettura di genere: le donne lo vivono come uno strumento di conciliazione, gli uomini come una privazione. Peccato che non sia molto diffuso nell’industria o nei settori più stabili e solidi, ma in quelli più precari e fragili, nei servizi, dove le retribuzioni sono più basse: commercio, alloggio e ristorazione, noleggi, agenzie di viaggio, supporto alle imprese.

Orari ridotti, anzi ridottissimi

Ma come si spiega l’ampia diffusione e la crescita, negli ultimi anni, del part time? “Per le imprese è uno strumento che dà un’immediata risposta al bisogno di flessibilità nella gestione del personale – risponde Marinucci -. Sono i lavoratori che si devono adattare al ciclo e agli orari delle aziende. Ma non dobbiamo pensare che questi contratti siano tutti al 50 per cento, cioè a metà tempo, anzi. Ci sono percentuali anche molto ridotte, 10 o 20 ore a settimana, per esempio. In questi casi, il datore ti può aumentare l’orario in base ai picchi, perché il contratto lo permette. Il lavoratore così fa fatica a mantenere un equilibrio tra vita e lavoro”.

Le forme, orizzontale, mista, con sospensione ciclica dell’attività, rendono difficile ricercare altri lavori per provare a costruire un reddito a tempo pieno. Come emerge anche dalle ispezioni dell’Inail, in un rapporto regolarizzato a part time spesso si nasconde un full time irregolare.

Verticale, ovvero sospesi

Un caso particolare ed eclatante è rappresentato dal ciclico verticale. Il lavoratore, o più spesso la lavoratrice, ha un contratto a tempo indeterminato con un orario distribuito in modo verticale: due giorni a settimana, due settimane al mese o tre mesi all’anno. Una modalità che vincola molto, dimezza le tutele perché nei periodi di sospensione non dà diritto a niente, malattia o maternità e penalizza il futuro pensionistico.

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Poveri al lavoro, poveri in pensione

“Il minimale contributivo per il raggiungimento dell’anzianità previdenziale pone i part time, soprattutto giovani e donne, in una condizione di disuguaglianza - spiega Ezio Cigna, responsabile delle politiche previdenziali della Cgil nazionale -. Oggi siamo in presenza di vite lavorative a poche ore settimanali e con basse retribuzioni che produrranno pensioni al di sotto della soglia minima, per raggiungere le quali serviranno un numero di anni superiore rispetto a chi ha contratti a tempo pieno. Per questo continuiamo a rivendicare per i part time, oltre all’introduzione di una pensione di garanzia, il superamento del minimale contributivo ai fini del raggiungimento dell’anzianità previdenziale”.

L’effetto dell’inflazione degli ultimi anni, poi, ha determinato un innalzamento del minimale contributivo impossibile da raggiungere, soprattutto se non si aumentano i salari. Per questo i rinnovi dei contratti collettivi sono una priorità per tutti, specie per chi vive una condizione di maggiore fragilità.