L’8 novembre del 1926 Antonio Gramsci viene arrestato in violazione dell’immunità parlamentare a Roma e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Il processo (fra i ventidue comunisti imputati anche Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro, Giovanni Roveda) inizia, sempre a Roma, il 28 maggio 1928.

Gramsci è accusato di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all’odio di classe e condannato a vent’anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione.

Dodici giorni dopo l’ arresto scrive alla moglie: “Mia carissima Julca, ricordi una delle tue ultime lettere? Mi scrivevi che noi due siamo ancora abbastanza giovani per poter sperare di vedere insieme crescere i nostri bambini. Occorre che tu ora ricordi fermamente questo, che tu ci pensi fortemente ogni volta che pensi a me. Ho cercato di immaginare come si svolgerà tutta la vostra vita avvenire perché rimarrò certamente a lungo senza vostre notizie; e ho ripensato al passato, traendone ragione di forza e di fiducia infinita. Io sono e sarò forte”.

“Moralmente ero preparato a tutto - scrive nella stessa giornata alla madre - Cercherò di superare fisicamente le difficoltà che possono attendermi e di rimanere in equilibrio”.

“Carissima mamma – tornerà a scriverle poco prima della condanna – non ti vorrei ripetere ciò che ti ho spesso scritto per rassicurarti sulle mie condizioni fisiche e morali. Vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna siano per darmi. Che tu comprendessi bene, anche col sentimento, che io sono un detenuto politico e sarò un condannato politico, che non ho e non avrò mai da vergognarmi di questa situazione. Che, in fondo, la detenzione e la condanna le ho volute io stesso, in certo modo, perché non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione (…)”.

Andrà esattamente così e Antonio Gramsci morirà, circa dieci anni dopo, il 27 aprile del 1937. “Un decennio - correttamente ricorda Marco Revelli - nel corso del quale scriverà (oltre ai 33 celebri Quaderni) centinaia di lettere, in condizioni proibitive affidate all’arbitrio dei suoi carcerieri, nei tanti luoghi di detenzione o di transito: a San Vittore, dove fu rinchiuso nei mesi del processo e dove gli era concesso di scrivere una sola volta a settimana avendo a disposizione unicamente due fogli di carta; a Turi dove restò cinque anni e dove poteva scrivere una volta ogni 15 giorni con un unico foglio che ripiegava in due per raddoppiare i destinatari; a Civitavecchia, dove fu detenuto già gravemente ammalato per qualche settimana prima di essere trasferito alla clinica Cusumano di Formia, e ancora al Carmine di Napoli, all’Ucciardone di Palermo, a Caserta o Isernia durante i trasferimenti. Lettere sottoposte a minuzioso controllo e censura da parte delle direzioni carcerarie, scritte nelle poche ore concesse, spesso negli stanzoni comuni, su tavolacci, banchi e stanzoni comuni, su tavolacci, banchi e piani d’appoggio improvvisati, le quali costituiscono tuttavia - o forse proprio per questa inumana asperità della condizione - un documento straordinario, letterario prima ancora che politico, oltre che una sconvolgente denuncia contro il fascismo”.

“È morto Gramsci”, annunciavano i fogli comunisti e antifascisti in esilio quel 27 aprile, mentre Mussolini sul suo giornale deriderà il defunto sottolineando come fosse morto da uomo libero ‘in una clinica di lusso’.

Nell’ottobre del 1934 il leader comunista aveva ottenuto la libertà condizionata, rimanendo ricoverato nella clinica di Formia fino all’agosto successivo, quando era stato trasferito alla clinica Quisisana di Roma. Il 25 aprile 1937, proprio nel giorno in cui sarebbero state sospese le misure di detenzione nei suoi confronti, è colpito da un’emorragia cerebrale rimanendo semiparalizzato.

Morirà due giorni dopo. La cognata Tatiana è con lui, poco dopo arriva il fratello Carlo. Soltanto loro possono vedere la salma, “circondati da una folla di agenti e di funzionari del Ministero degli Interni”, ricorderà Tatiana (“Comunico che questa sera - recita un fonogramma del questore di Roma del 28 aprile - alle 19,30, ha avuto luogo il trasporto della salma noto Gramsci Antonio seguito soltanto dai familiari. Il carro ha proceduto al trotto dalla clinica al Verano dove la salma è stata posta in deposito in attesa di essere cremata”). Il cadavere viene cremato il 5 maggio.

Quando Gramsci muore è in corso la guerra di Spagna.

Il 22 maggio 1937, 18 giorni prima di essere ucciso insieme al fratello Nello, sarà proprio Carlo Rosselli a celebrarne la scomparsa elogiando il sacrificio di un uomo “intimo, riservato, razionale, severo, nemico dei sensitivi e delle cose facili, fedele alla classe operaia nella buona come nella cattiva sorte, agonizzante in una cella, con tutto un esercito di poliziotti che cercano di sottrarlo al ricordo e all’amore di un popolo”.

“Si può dire - dirà però Francesco Giasi - che alla fine Mussolini fu beffato da Gramsci. I Quaderni del carcere e le Lettere restano la testimonianza più vivida dell’intelligenza e della moralità dell’antifascismo. A Mussolini non conveniva che Gramsci divenisse un eroe e, con la morte, un martire. Di fronte all’incalzante campagna internazionale per la sua liberazione, fu costretto a cedere poiché effettivamente le condizioni di salute di Gramsci erano gravi e incompatibili col carcere. Era interessato a mettere la sordina ai prigionieri politici e a mostrare, allo stesso tempo, la sua fermezza e la sua magnanimità. (…) Certo Mussolini non poteva lasciarlo andare. La voce di Gramsci reduce dalle prigioni lo avrebbe soltanto danneggiato. La morte però provocò un danno maggiore: Gramsci divenne un simbolo e una leggenda”.

“La figura di Antonio Gramsci - scriverà Giuseppe Di Vittorio nel primo anniversario della morte su La Voce degli italiani - è di quelle che ingrandiscono a misura che si allontanano nel tempo. Onorando la memoria del martire, al quale i figli più eletti di tutti i popoli rendono il più commosso omaggio, noi abbiamo la certezza di esprimere l’intimo sentimento, non già d’un partito, ma di tutto il popolo italiano, che intravide in Gramsci il grande condottiero capace di guidarlo sulla via della riscossa e della vittoria. (…) Il fascismo aveva compreso quale grande capo aveva in Antonio Gramsci il popolo italiano, e glielo rapì, assassinandolo gradualmente, freddamente, in oltre dieci anni di lento e sistematico supplizio”.

“La tragedia di un uomo e di una donna - scriveva Paolo Spriano - non invecchia con il tempo, non finisce di commuoverci: la sua evidenza è come fissata dalla rispondenza dei sentimenti che ogni generazione possiede al pari delle precedenti. Verrebbe fatto, semplicemente, di continuare a chiosarla, a riempirla di riscontri”.

“Gramsci is dead, Gramsci è morto - annotava qualche anno fa Guido Liguori - come recitava il titolo del libro di qualche anno fa di Richard Day, teorico statunitense del comunismo-anarchismo di estrema sinistra. Voleva dire che era morta la sua teoria dell’egemonia e più in generale il suo pensiero politico, in favore di una teoria immediatistica e di una azione inevitabilmente e dichiaratamente parziale degli attori sociali marginalizzati e divisi. E invece Gramsci è vivo. È il saggista italiano più diffuso nel mondo, in tutte le lingue e tutti i continenti. Gramsci è vivo e lotta, lotterebbe insieme a noi, se noi sapessimo anche minimamente essere degni del suo esempio di vita e del suo pensiero rivoluzionario”.

Odio gli indifferenti - scriveva del resto nel febbraio del 1917 il fondatore del Pci - Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo”?

“Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.