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Scritto da Gaia Nanni e Giuliana Musso, che cura anche la regia, La notte dei bambini ci riporta alla notte del 14 dicembre 2007: l’intera città di Firenze si concentra su un percorso protetto che vedrà il passaggio di ambulanze silenziose, motociclette della polizia e dei carabinieri, taxi, auto mediche, pulmini, autobus pubblici. Intorno a loro 200 vigili urbani volontari, 230 volontari della protezione civile, 50 agenti di polizia e carabinieri. È la storia vera del trasferimento alla nuova sede, avvenuto in una singola notte, dell’intero Ospedale pediatrico Meyer di Firenze. Dall’11 al 14 dicembre al Teatro di Fiesole.
Gaia Nanni, in scena lei dà vita ai suoi ricordi di quella notte vissuta in prima persona, e agli abitanti del suo quartiere che, tutti insieme, scesero in strada.
Il 14 dicembre del 2007 io ero a Firenze. Quella notte ci mettemmo a veglia nell'officina del mio elettrauto Maurino, con tutte le persone del mio condominio: la signora del piano di sopra, Terrore, che era il matto del quartiere, la signora della trattoria. Insieme ci mettemmo a osservare il passaggio silenzioso delle ambulanze che portavano i bambini dalla vecchia alla nuova sede dell'ospedale pediatrico Meyer, con le sirene spente, per non spaventare i piccoli pazienti. Quella notte, tutta città si fermò in attesa, in questo grande respiro di comunità. Presidiammo 7 km di strade chiuse al traffico. Autisti e tassisti si offrirono di trasportare gratuitamente i bambini non in barella, insieme ai propri genitori.
Cosa la colpì di quella notte e perché è importante per lei raccontarlo
Fu una notte che mi colpì tantissimo perché io sono nata e cresciuta in Via Masaccio a Firenze, che di fatto è un quartiere molto borghese. Ma quella notte le facce del mio palazzo e del mio quartiere sembravano diverse. Chi accendeva una candela, chi pregava, chi portava da bere e da mangiare. Credo che raccontare questa esperienza, vissuta in prima persona, possa servire a ricordare come nelle emergenze le persone tirino fuori il potere di fare bene, di essere solidali.
In questo momento di emergenze collettive ne stiamo vivendo diverse. Ma pensiamo a un’emergenza passata come la pandemia. La sensazione è che – per dirla con la saggezza popolare- “passato il santo, passi anche la festa”.
Esatto. Ma io credo fortemente che in mezzo all'orrore si debba avere la voglia ostinata di andare a cercare il buono che abbiamo dentro. E in quelle pagine ci siamo noi. Se ci allontaniamo dai nostri problemi quotidiani, dai grattacapi che spesso hanno poco valore, e ci ancoriamo a un disegno più grande, allora diventiamo bellezza. Io credo fortemente nell’uomo, e per me raccontare una storia come questa significa dire che non è tutto da buttare, che abbiamo ancora la capacità di meravigliarci, di entrare in empatia.
Questa storia però è anche un’occasione per parlare di sanità pubblica.
Sì. Per scrivere il testo ho fatto un lavoro di indagine durato molti mesi, con interviste ai sanitari che erano presenti quella notte. E quando parli con quel personale sanitario che ha 40 anni di lavoro sulla schiena, ti si apre un prima e un dopo. Moltissimi ripensando a quell’ospedalino, alla vecchia sede fatiscente, si commuovono ancora oggi. Non a caso la maggior parte dei sanitari che vengono a vederci poi tornano, portano gli specializzandi, portano i propri colleghi perché si sentono rappresentati da quelle voci in scena.
Una volta esisteva una sanità più ancorata al territorio, che nelle aree interne soprattutto, era un presidio fondamentale di welfare e di umanità.
Evidentemente ci siamo lasciati indietro, nel rapporto col paziente, dei codici preziosi che in parte sono andati smarriti. Oggi il servizio sanitario ha perso questa dimensione territoriale, “di quartiere”, è meno vicino al cittadino. Dalle parole dei sanitari che ho intervistato traspare un’enorme amarezza per le fatiche di ogni giorno. Tra i tanti personaggi che interpreto nel monologo c’è, per esempio, una badante dell’Est, che dice "Qui tutti vengono curati senza distinzione, a casa mia no, a casa mia se hai i soldi guarisci, se non hai i soldi, puoi morire.” E poi ci sono le parole di infermieri, pediatri. Il monologo è il frutto di ore e ore di interviste sbobinate, che abbiamo poi trasformato in drammaturgia insieme a Giuliana Musso. La sua capacità di sintesi è stata preziosa, perché non era compito facile trasformare queste esperienze, raccontate con dovizia di particolari, in un testo teatrale.
L'infermiera Cinzia dice "La felicità è una catena: se son contenti gli infermieri, sono contenti anche i bambini e se i bambini stanno bene sono contenti anche i genitori”. Lo spettacolo ci invita a tornare a essere più umani.
Abbiamo un assoluto bisogno di tornare a un'umanizzazione del lavoro, gli ospedali non possono essere solo aziende, le malattie non sono soltanto codici e i pazienti non sono soltanto clienti. Con i pazienti bisogna passarci del tempo, capire come sta davvero. Se un paziente viene considerato più dei suoi sintomi e della sua malattia, anche il tempo di degenza si accorcia. Questo non è romanticismo, è scienza.
Infine, com’è stato scrivere e ora interpretare le persone della sua vita, quelle che vivono nel suo quartiere?
Terrore mi ha dato la possibilità di affrontare il tema della disabilità intellettiva. Quando quell'unico parente che aveva, sua nonna, se n’è andato, è stato adottato dal mio quartiere. Maurino è un vero e proprio un presidio culturale, un elettrauto che ha una parola per tutti, riesce a risolvere tutti gli “impicci” quotidiani. La signora del piano di sopra e la sua badante sono persone di famiglia. Di alcuni conservo i ricordi, perché non ci sono più. Per altri, è stata l’occasione di passarci di nuovo del tempo insieme, condividendo i ricordi.
























