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Benvenuti ad Atreju, dove la politica si traveste da epopea nazionale e il governo si fa spettacolo permanente. Qui ministri e fedeli si arrampicano verso la gloria come personaggi di un romanzo d’avventura, convinti che basti una scenografia monumentale per fondare una nuova religione civile. Tutto vibra in un entusiasmo programmato, calibrato come certe luci natalizie che nascondono il buio invece di illuminarlo.
Sotto il cartellone che proclama “Eravamo in pochi, ora siamo la maggioranza” si consuma il rito del premierato nascente. Una liturgia che sogna leggi su misura e un Quirinale 2029 già prenotato. La parola sacra è dialogo, ripetuta con zelo missionario. Ospiti illustri come rosari democratici: Conte, Bonelli, Di Maio, Abu Mazen, Zuppi. Un casting multipolare per certificare la mutazione genetica nel Partito della Nazione. Dialogo come metodo, certo. Anche mentre si spiana il campo per prendersi tutto.
Della goliardia antica restano effetti speciali sfiatati. Una pista di pattinaggio che lucida l’immagine, Fini e Rutelli trasformati in reperti da mostra temporanea. Alla radio di partito si dileggia Schlein con l’energia stanca di un doposcuola. Il bullometro espone i nemici giurati: Landini, Albanese, Boschi, Odifreddi, Galimberti. Un bestiario necessario a mantenere il tono epico di una battaglia che assomiglia sempre più ad un’autocelebrazione.
In questo teatro continuo emergono figure che si gonfiano a ogni polemica istituzionale, mentre gli sguardi restano attratti dal passo laterale di Arianna Meloni, sovrana discreta che governa con l’arte dell’ellisse. Nei margini si esercita il vero potere, mentre il palco serve a rassicurare i presenti sulla stabilità della favola.
E il sospetto cresce. Che questa festa infinita sia più una coperta termica per un esecutivo in cerca di certezze che un dono al Paese. Che la politica viva altrove, dove qualcuno sceglie il dissenso minimo, l’assenza ragionata. Il gesto che incrina la vetrina sovranista più di qualunque luminaria.






















