Economia di guerra, economia dell’energia fossile contro modello sociale fondato sul welfare e contro il green deal. E, come ciliegina sulla torta, la partita del digitale e dell’economia dei dati, esclusivo appannaggio degli Stati Uniti (e pure senza tasse).

Questa, secondo il docente di Politica economica presso la Scuola normale superiore di Pisa Mario Pianta, è la sconfitta vera che si è registrata in Scozia tra Ursula von der Leyen e Donald Trump. La questione dei dazi è solo una parte, forse nemmeno la più rilevante, della partita tra Europa e Stati Uniti.

Partita non finita: è di queste ore la notizia che, sì, il presidente ha firmato l’ordine esecutivo che fissa i dazi per l’Europa al 15 per cento, ma l’entrata in vigore slitta al 7 agosto. E poi, cosa c’è scritto in quel documento? Quali sono i settori interessati e quelli esentati? Farmaceutica sì o no? Vino sì o no? I big tech sono tassati, e quanto, oppure no?

Incertezze che sono parte di una trattativa non terminata, e chissà quando lo sarà. Quel che emerge è la grande debolezza delle classi dirigenti europee e la subalternità economica, ma anche politica, agli Stati Uniti.

In questa vicenda dei dazi esiste un doppio binario: da un lato quello economico, dall’altro quello politico.

Certo, esiste un problema politico: il punto è quale modello di sviluppo l'Europa vuole perseguire. Le modalità di rapporto che si definiscono ormai tra Europa e Stati Uniti sono sempre più caratterizzate da asimmetrie di potere politico. E queste determinano interventi sulla qualità del modello di sviluppo che viene realizzato.

Il nodo è dunque soprattutto politico…

Sì, perché riguarda cosa l’Europa vuole fare dal punto di vista energetico, militare, commerciale. Quindi se vuole esportare, se vuole essere autosufficiente sul piano energetico, se persegue ancora la riduzione del cambiamento climatico, oppure no. Ci sono una serie di questioni, politicamente centrali, che vengono sacrificate in quest’agenda commerciale. In sostanza, è come se per la porta del commercio passasse una ridefinizione complessiva del modello di sviluppo europeo.

Ha parlato di Europa: ma esiste l'Europa? Qual è la soggettività politica europea che si è espressa in questa trattativa?

È chiaro che la debolezza dell’Europa è spaventosa. Da una parte è importante, conta, e non va sottovalutato il potenziale politico che l’Europa porta con sé: il fatto che gli Stati Uniti la attacchino su questo fronte, che vogliano ridefinire le cose in modo così radicale, segnala che comunque, per quanto debole, timida e limitata, l’iniziativa europea era comunque un’alternativa al modello americano. Ovviamente riguardo il green deal, ma anche sul digitale e la protezione dei dati, sui rapporti con le multinazionali delle piattaforme, sulla questione delle tutele del lavoro.

Sembra quasi un paradosso…

Esattamente. Proprio nel momento in cui l’Europa sembra non esistere e non avere alcuna capacità d’azione, si rivela che anche quel poco di cose che poteva fare erano comunque un problema per gli Stati Uniti, oltre che una strada aperta per un altro modello di sviluppo. Ma a colpire, tanto più alla luce di quanto ho appena detto, è anche la resa dell’Europa che si fa ancella degli Usa.

Sconfitta politica, dunque, non solo economica.

E tanto più grave perché ha effetti su alcune cose fondamentali che sono di natura profondamente politica, che riguardano appunto il modello di sviluppo economico. Se si toglie la capacità esportativa a un’Europa centrata intorno alla Germania, e che da trent’anni fa solo politiche di austerità interna, si elimina l’unica domanda che tira. Non ci sono investimenti pubblici, anzi, ci sono i tagli della spesa pubblica; non ci investimenti privati, perché le imprese non investono da vent’anni; non ci sono i consumi, perché aumentano le diseguaglianze e i tagli ai salari.

Qual è il risultato di tutto questo?

È una recessione di lungo termine. Non a caso l’Europa cresce da vent’anni attorno allo zero, e questa situazione si aggraverà ulteriormente. Quindi l’unica idea neoliberista, mercantilista, tedesco-centrica, che certo era sbagliata, ma era un'idea che comunque ha dato un po’ di fiato al continente, con quest’accordo salta.

Salta anche il green deal.

La sostituzione della dipendenza dalla Russia per il gas naturale con la dipendenza dall’America per il gas liquefatto è un passo indietro spaventoso. Insisto, su energia e clima c’è un arretramento incredibile.

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E poi c’è la partita delle armi...

La cessione agli americani, in realtà, era già cominciata con ReArm Europe, che prevedeva 300-400 miliardi di acquisti di armi americane. Il fatto che l’ulteriore acquisto di armi entri dentro questo pacchetto, un pacchetto di pura subalternità, conferma che con buona pace dei francesi o dei tedeschi, che volevano rafforzarsi per essere più autonomi, ci troviamo in una situazione di dipendenza totale dagli Stati Uniti.

C’è anche la questione che riguarda il digitale, i dati e l’innovazione del futuro?

Abbiamo abdicato a qualunque possibilità di ruolo dell’Europa rispetto a questo. E abbiamo addirittura ceduto, perlomeno così pare, su quella piccolissima e anche forse poco efficace, ma comunque era un segnale politico, idea di web tax rispetto ai grandi provider e ai grandi signori del digitale, che sono tutti statunitensi.

Qual è, dunque, il suo giudizio complessivo su quest’accordo?

Quest’accordo è una tragedia, che va molto al di là delle questioni commerciali o dei dazi o delle 40 bottiglie di vino che non si vendono perché aumentano i prezzi. È un problema proprio di identità, di valori, di politica con la P maiuscola, dell’orizzonte europeo. E il fatto che il dibattito in Europa non tocchi questi temi, ma tocchi bensì gli aiuti da dare alle imprese, è patetico. Non solo: dà anche la misura di quanto von der Leyen, Macron, Meloni e tutti gli altri, non capiscano la portata delle cose.

Esiste una vecchia frase, ormai diventata desueta: allora, che fare?

Sulla questione dei dazi intanto bisognerebbe comportarsi come la Cina: occhio per occhio, dente per dente. E poi soprattutto fare l’opposto di ciò che si sta facendo, cioè attaccare Trump sui punti su cui è attaccabile: il digitale, la tassazione delle multinazionali, i paradisi fiscali in Europa, la fuga dei capitali, i privilegi delle imprese finanziarie americane in Europa. Il nostro continente potrebbe ancora dire: ‘Voglio difendere il welfare, difendere lo stato sociale, i diritti del lavoro, la qualità dello sviluppo, anziché uno sviluppo selvaggio, e mi muovo in quella direzione’. Insomma, se l'Europa volesse contrattare davvero potrebbe farlo tranquillamente. Il problema è che ci vorrebbero una classe dirigente europea e una politica degna di questo nome.

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