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“Investendo 131 miliardi di euro nel settore della difesa e dell'industria militare l’Unione Europea compie un altro passo verso l’Europa della guerra e ci allontana ulteriormente dal progetto di un'Europa sociale, ecologica e democratica, che viene così definitivamente accantonato”.
È l’inizio dell’appello dei promotori italiani della campagna europea “Stop rearm europe”, che ad oggi vede l’adesione di oltre 500 sigle in Italia, in risposta alla proposta della Commissione europea di destinare 131 miliardi di fondi Ue al settore bellico all’interno del Quadro finanziario pluriennale per il settennato 2028-2034, che delinea un piano di investimenti di quasi 2000 miliardi.
“Ci appelliamo alle forze politiche presenti nel Parlamento europeo affinché si oppongano con fermezza a questo folle aumento della spesa militare, proseguiamo il nostro impegno e invitiamo alla massima mobilitazione a tutti i livelli, locale, nazionale ed europeo, per impedire questa ulteriore deriva verso il sistema guerra, anche attraverso l’iniziativa Comuni per la pace e contro il riarmo”.
Ci sono contraddizioni evidenti in questa scelta, accompagnata dall’aumento del 5% del pil per le spese per la difesa deciso in sede Nato, come ci spiega Chiara Bonaiuti, coordinatrice dell’Osservatorio sul Commercio delle Armi dell’Istituto di ricerche economiche e sociali (Ires) Toscana.
Tutte le contraddizioni
“Si tratta di un incremento enorme – afferma Bonaiuti –, visto che l'Italia e gli altri Paesi europei hanno già aumentato consistentemente le loro spese militari nell'ultimo decennio e a tale incremento non si è associato complessivamente fino ad oggi alcun effetto espansivo per l'economia.
L’idea che la spesa militare sia un volano per l’economia è da tempo oggetto di dibattito e la ricercatrice dell’Ires Toscana ci spiega che “una serie di studiosi ha nel tempo evidenziato come l’industria della difesa funzioni come politica industriale distorsiva, orientata non dall’innovazione utile ma dalla domanda militare. Sono state spesso prodotte tecnologie sofisticate ma scarsamente applicabili in ambito civile”.
Spesa militare o welfare?
"Uno studio del 2023 su Francia, Italia e Spagna – prosegue Bonaiuti – mostra che, tra il 2013 e il 2023, la spesa militare è cresciuta del 46%, ben oltre l’aumento delle spese per sanità (34%), istruzione (12%) e ambiente (10%). Tuttavia, il Pil è cresciuto appena dell’1% annuo e l’occupazione del 9% in undici anni: segno che la spesa militare non ha avuto effetti espansivi.
Inoltre le spese militari, essendo finanziate con risorse pubbliche, implicano una redistribuzione dei fondi spesso a favore di soggetti già forti: grandi imprese, fondi finanziari e azionisti. In presenza di profitti elevati e salari stagnanti, esse possono accentuare le diseguaglianze e la polarizzazione sociale.
Oggi i fondi finanziari detengono ampie quote delle aziende militari europee e ne orientano le scelte strategiche. Bonaiuti ci fornisce altri dati: “Tra il 2019 e il 2023 il rendimento azionario dei big della difesa (68,7%) è stato quasi doppio rispetto all’indice globale (34,8%). Questa dinamica solleva interrogativi critici: può la finanza orientare le decisioni politiche verso il conflitto? È possibile che alcuni attori finanziari traggano vantaggio dalla prosecuzione delle ostilità, contribuendo a una profezia che si autoavvera? La politica europea deve interrogarsi su come evitare che l’interesse collettivo venga subordinato alla logica della rendita.
Tra strategia, diritto e politica industriale
La nostra interlocutrice ci ricorda che l’Unione Europea si fonda su principi giuridici che includono la promozione della pace, dei diritti umani e dello stato di diritto, ma che “il recente disimpegno da trattati sul controllo degli armamenti e l’export verso regimi autoritari o coinvolti in conflitti solleva interrogativi di coerenza normativa e reputazione internazionale. Come sottolinea Giorgio Beretta dell’Opal, la credibilità dell’Ue come attore globale è minata dall’applicazione selettiva del diritto.
Nonostante la retorica sull’autonomia strategica, l’Unione europea resta fortemente dipendente dalle forniture statunitensi: tra il 40% e il 60% degli armamenti europei proviene dagli Stati Uniti e le vendite americane verso l’Europa sono aumentate del 233% nel quinquennio 2020-2024 rispetto al periodo 2015-2019. Il programma F-35, ad esempio, ha coinvolto quasi tutti i maggiori Paesi europei. Questa dinamica rafforza le industrie statunitensi, che riescono a soddisfare rapidamente la domanda europea, trasformando i piani di riarmo europeo in una leva per la loro crescita”.
Questione di democrazia
Se pensiamo al governo degli Stati Uniti, che è costituito da quei soggetti che hanno un interesse all'aumento delle spese militari, appare chiaro come le industrie belliche possano influenzare la politica. “Per questo motivo è estremamente importante il controllo democratico – afferma Bonaiuti -, trovandoci ormai su un piano inclinato che ci sta portando verso la guerra e sul quale pesa la finanza, che è un soggetto impersonale e quindi più difficile da convincere. I meccanismi finanziari non si controllano perciò dobbiamo innalzare il livello della democrazia”.
La maggioranza dei cittadini italiani infatti è da tempo contraria all’aumento delle spese militari e indica come prioritario seguire strade diplomatiche per risolvere le crisi. Tale volontà deve essere rappresentata. Per la coordinatrice dell’Ires Toscana “è necessario farsi sentire a livello parlamentare.
Oltre a protestare, a manifestare contro la guerra, è necessario dare il proprio voto nell’ottica di contrastare il riarmo a livello italiano ed europeo. Nei partiti, nei sindacati, nei gruppi, nelle associazioni e nei movimenti bisogna che siano prioritari gli elementi di democrazia: tante teste ragionano molto più di una sola e serve muoversi insieme per raddrizzare questo piano inclinato ed evitare che si finisca in una guerra globale”.