In tribunale si giudicano i reati, ma intanto si commette il delitto più antico: lo sfruttamento. Dodicimila lavoratrici e lavoratori della giustizia, assunti con i soldi del Pnrr, sono condannati a una scadenza come lo yogurt: a giugno 2026 non più indispensabili, solo eccedenze da smaltire. Funzionari provvisori, professionisti a termine, carne da ufficio: ecco chi tiene in piedi tribunali e corti d’appello. Sono i fantasmi che protocollano, classificano, spingono avanti la macchina arrugginita.

I sindacati lo gridano da tempo: stabilizzare, non licenziare. Ma la politica finge di non sentire e preferisce che la giustizia resti lenta, intasata, inefficiente. Così ogni rinvio diventa un alibi, ogni prescrizione un’amnistia di fatto, ogni fascicolo impolverato un regalo a chi può permettersi avvocati e calendari infiniti. Perché un sistema zoppo serve ai forti, non ai deboli.

Il paradosso è però feroce. Uno Stato che si proclama custode della legalità, ma che in casa propria viola la prima regola, quella della dignità del lavoro. Non un’azienda privata, non un imprenditore spregiudicato, qui è il datore di lavoro pubblico a inventarsi il precariato seriale. L’ingiustizia eretta a modello dentro la giustizia, roba da manuale di criminologia psichiatrica.

E guai a chiedere tutele, la risposta è sempre la stessa: litanie di vincoli di bilancio, compatibilità, “non ci sono risorse” e via cantando. Poi però i soldi per i condoni si trovano, per le clientele pure, per le armi non ne parliamo. Manca tutto, tranne la faccia tosta di raccontare che i lavoratori sono temporanei come se la giustizia fosse un call center che chiude d’estate.

E allora non giriamoci attorno, se questi dodicimila poveri Cristi verranno scaricati, non cadranno soltanto loro, cadrà l’intero ingranaggio. I tribunali si svuoteranno come gusci marci, le sentenze resteranno sospese, i cittadini diventeranno comparse in un dramma senza fine. Il sistema giudiziario non morirà di vecchiaia, ma per mano del suo stesso padrone. E la lapide sarà firmata “Repubblica Italiana”.