Nelle ultime ore l’offensiva di terra è diventata realtà. I carri armati israeliani hanno varcato il cuore della Striscia di Gaza, devastando quartieri già piegati da settimane di bombardamenti. Le immagini mostrano fiamme, crolli, colonne di fumo: la città più popolosa dell’enclave è sotto assedio, mentre la popolazione civile si trova intrappolata senza vie di fuga.

Il governo Netanyahu parla di “sconfitta totale di Hamas”, ma i numeri raccontano altro: a cadere sono donne, bambini, anziani. Solo ieri si contano almeno 62 vittime, aggiunte a migliaia dall’inizio dell’attacco. La macchina da guerra israeliana non risparmia ospedali, scuole, abitazioni. La retorica della “sicurezza” si traduce in macerie e in un genocidio a cielo aperto.

Cos’altro deve accadere? Quanti cadaveri devono ancora essere estratti da sotto i palazzi distrutti perché la comunità internazionale usi le parole giuste? Non siamo davanti a una guerra “tra pari”. Siamo di fronte a un’invasione sanguinaria, condotta da uno degli eserciti più potenti del pianeta contro un popolo disarmato e assediato.

A Tel Aviv, Netanyahu ringrazia Trump per le sue minacce a Hamas e riceve la protezione diplomatica degli Stati Uniti. Washington prova a rassicurare il Qatar, indicato come unico canale di mediazione, ma intanto nulla ferma l’avanzata dei tank e il diluvio di bombe. Le famiglie degli ostaggi israeliani scendono in piazza chiedendo il ritorno dei loro cari, mentre due milioni di palestinesi sono ostaggi collettivi di un governo che ha scelto la guerra infinita come unico orizzonte.

Il silenzio delle cancellerie europee e delle istituzioni internazionali pesa come una complicità. Parlare genericamente di “tregua” o “cessazione delle ostilità” non basta: serve nominare i responsabili, imporre un embargo sulle armi, aprire corridoi umanitari immediati.

A Gaza la gente non chiede miracoli, ma sopravvivenza: acqua, pane, cure. Ogni giorno che passa senza un cessate il fuoco immediato è un giorno di sangue in più, un passo più vicino al baratro. E allora la domanda resta, più urgente che mai: cos’altro deve accadere prima che il mondo scelga di fermare Netanyahu e la sua guerra di sterminio?