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“Sono cieca. Oppure non vedente, per chi preferisce il politically correct. Ma è uguale”. In questa frase di Antonella Cappabianca, che apre il documentario di cui è protagonista, è racchiuso tutto il senso della nostra incapacità di rapportarci con la disabilità.
Io la vedo così, di Umberto Vescera, prodotto da Vacuna Pictures, è stato presentato venerdì 12 settembre a Roma, al Cinema delle Province, nel corso di un evento che ha visto la partecipazione del regista e di Antonella Cappabianca.
La disabilità come quotidiano da esplorare
Quarantacinque anni, avvocato, innamorata del suo Alessandro e della loro piccola Michela, Antonella non vede dalla nascita: “A tre mesi mia madre si accorse che qualcosa non andava – racconta – perché il mio sguardo rimaneva fisso”. Il docufilm di Vescera è un’indagine intima e delicata nella vita della protagonista, attraverso gli spazi in cui lei si muove, prevalentemente quelli della sua casa.
In cinquanta minuti la donna racconta con coraggio e ironia una quotidianità che per lei è banale, ma per chi la vede rappresentata sullo schermo assume dei contorni di straordinarietà. Antonella non si è mai privata di vivere, come lei stessa racconta, in tutto ciò che questa parola significa, a prescindere dalla disabilità. E però lei fa molto di più: disegna, fotografa, perché “sente le cose”.
“Antonella non può vedere, ma sa come farci osservare”
Un concetto complesso da comprendere per chi invece vede, e alla vista affida la propria principale esperienza della realtà. Nel corso dei suoi viaggi insieme al marito Alessandro, Antonella ha collezionato scatti che sono stati oggetto anche di un’esposizione, nonché dell’interesse di Oliviero Toscani, che di lei ha detto: “Antonella non può vedere, ma sa come farci osservare”.
Nel corso del suo lungo flusso di coscienza, la donna prova a spiegare da dove nascono le sue foto: un modo, per lei, di alimentare il suo continuo confrontarsi con i confini, i margini, gli orizzonti. Per chi ha come unica esperienza della cecità quella del buio, la sensazione più simile può forse essere quella di muoversi in uno spazio nero, con le mani in avanti, alla continua ricerca di sostegni e di ostacoli. Di margini, appunto.
“Il mio desiderio più grande non è vedere”
Nelle parole di Antonella, invece, quei margini non sono mai dei limiti, ma piuttosto dei passaggi da attraversare, con la curiosità di chi non vive la propria disabilità come un minus, ma come un plus. Lei stessa dice “Quando mi chiedono quale sia il mio desiderio più grande, rispondo che non è quello di vedere”. Nei cinquanta minuti di Io la vedo così, attraverso la soggettiva del regista, da spettatori proviamo a condividere il punto di vista di Antonella, in senso sia metaforico sia letterale: il suo modo di prendere la vita.
Ma anche il suo personale modo di vedere. Ad esempio i colori, che per lei si traducono in percezioni e ricordi: “Rosso è per me il maglione che ho usato per tanti inverni”. Ma anche le persone: suo marito è bellissimo. E quando la figlia le chiede se da adolescente si piacesse, Antonella risponde “sì, io mi sono sempre piaciuta”. “Certo - risponde la piccola Michela - facile per te che non ti sei mai guardata allo specchio”.
Il regista in dialogo continuo con la protagonista
Il racconto di Vescera si fa dialogo continuo con la protagonista, scelta di lasciare anche le scene “sporche”, i presunti tagli, con un montaggio che svela alcuni momenti di backstage, trasformandoli in espediente narrativo. Queste scelte, unite alla grande generosità comunicativa di Antonella, invitano il lettore a un’empatia che riesce a bucare lo schermo.
“Questo film nasce da una curiosità personale. Avevo visto un video di Antonella e ho pensato assolutamente che volevo conoscerla”, racconta il regista: “Ho cercato per molto tempo di mettermi in contatto con lei. Quando finalmente ci sono riuscito le ho detto che mi sarebbe tanto piaciuto conoscerla, che essendo regista avrei registrato i nostri incontri, ma senza neanche sapere poi cosa farmene di quelle riprese. Un’esperienza che porto nel cuore.”
Un messaggio di forza universale
Io la vedo così parla di disabilità visiva, ma è un messaggio universale per chiunque cerchi forza, ispirazione e autenticità, in un mondo che troppo spesso trascura la diversità. Un segnale per chiunque senta di non farcela, o si ponga dei limiti. Quelli che Antonella, al contrario, non vuole imporsi. Gli ostacoli per lei sembrano essere delle avventure da vivere, più che delle barriere da non oltrepassare.
Il docufilm parla anche alle famiglie che nel quotidiano vivono la disabilità e a tutti coloro che non sanno come confrontarcisi. Tenero e profondo è il racconto di come i genitori di Antonella si siano sempre approcciati alla cecità come una caratteristica della propria figlia, piuttosto che come un difetto di fabbrica.
Gli occhi della maternità
Altrettanto incredibile è il racconto che Antonella fa della sua maternità: una scelta ponderata con il marito Alessandro, non vedente anche lui, e sperimentata con la figlia oggi undicenne Michela. Un giorno la bimba torna a casa, dice alla madre che a scuola l’hanno apostrofata come “figlia di due handicappati” e chiede spiegazioni. Antonella prova a dargliele nella maniera più semplice possibile. Michela ascolta, poi conclude: “Beh, allora è vero, è così”. Le parole sono solo parole. Poi c’è la vita, e bisogna avere il coraggio di viverla.