"A un certo punto ho cercato di ricordare come ero all'inizio, prima che quell’esperienza diventasse il mio mestiere a tutti gli effetti”. Inizia così la chiacchierata con Angelo Campolo, regista e interprete e autore di Antonino. Due le proiezioni di ieri (24 ottobre) all’interno della Festa del Cinema di Roma: alla Casa del Cinema e al The Cineclub, dove il regista e il cast hanno incontrato il pubblico. Il corto nasce dal percorso della compagnia DAF Project e si ispira al protocollo Liberi di Scegliere, ideato dal magistrato Roberto Di Bella. 

Angelo Campolo, possiamo dire che il corto racconta un percorso di rinascita non solo dei ragazzi, ma anche sua? 

Oggi mi muovo con delle strategie educative molto diverse da allora. Però mi sembrava che fosse molto significativa quella storia, perché il percorso di scoperta che avevo fatto mi ha cambiato profondamente: da lì ho ricominciato a studiare, ho scelto di laurearmi alla Bicocca in Scienze dell'Educazione, ho capito che il teatro come strumento educativo non si può improvvisare, ma è un mestiere che ha un suo percorso specifico. A volte però succede, da attori, che ci si lanci allo sbaraglio in questa attività laboratoriale vista un po’ come una sorta di animazione. Niente di più sbagliato. La storia comincia con una persona che vuole stare chiusa dentro lo spazio, lo vuole rivoluzionare dall’interno. E si conclude con una finestra aperta, fisicamente e mentalmente: fuori da certi schemi, da certe impostazioni.

Nel corto lei interpreta se stesso, nell’atto di decostruire e ricostruire la propria attorialità, per trasformarsi in “educatore”, l’appellativo che all’inizio rifiuta. Qual è il cambiamento che avviene?

Nella mia esperienza – condensata nella sceneggiatura - ho potuto misurare tutti gli errori e tutti gli inciampi che si fanno, e sono tanti. Io credo molto nel teatro come strumento educativo, e penso che però tutti dobbiamo fare squadra intorno a questi ragazzi. Perché un conto è quando ci si rapporta a loro “a mani nude” e senza gli strumenti giusti. Altra cosa e quando invece si costruiscono alleanze tra realtà e professionalità differenti. Ancora troppo spesso chi fa teatro entra nel mondo dell’educazione in maniera un po’ sprovveduta. Magari costruisce esperienze individuali molto significative, ma che non hanno alcun tipo di ricaduta al livello di sistema.

Quando è arrivato nel suo percorso il cambiamento decisivo nel modo di approcciarsi ai ragazzi che stanno in “messa alla prova” e frequentano i suoi laboratori?

Ci sono stati tanti momenti decisivi. Il primo in assoluto è stato durante il laboratorio con alcuni ragazzi del Mali, da cui è nato il mio lavoro Stay Hungry. Era il 2015, eravamo a Messina e in quell’incontro dovetti spazzare via tutte le mie idee su cosa significasse essere un migrante. In generale, ciò che mi ha fatto crescere e imparare di più sono state le sconfitte, che mi portano sempre ad interrogarmi. Dopo il terribile omicidio di Palermo di alcuni giorni fa, ho visto le foto del ragazzo che ha confessato di aver ucciso Paolo Taormina. Il suo aspetto mi ha fatto ripensare a uno dei miei ragazzi che, in passato, aveva abbandonato il laboratorio a metà. Ecco, penso a tutti quei ragazzi che non sono riuscito a tenere dentro, che mi hanno fatto dire “devo stare più attento”.

E come si esce da questa impasse?

Io lo faccio cercando di aprire le porte, soprattutto quelle dei teatri stabili, invitandoli a creare quei protocolli che oggi rappresentano ancora un punto zero rispetto a tutto il lavoro che c’è da fare, ma che sono un punto di partenza per provare a sistematizzare il rapporto tra teatro e rieducazione. Si pensi, per ciò che mi riguarda, a tutto il mondo della “messa alla prova”, la situazione in cui si trovano ragazzi che ancora non hanno commesso reati estremi, ma vivono in una storia di “anticamera del crimine”. Lì ci sono destini ancora non segnate, vite su cui si può ancora intervenire.

Il corto racconta il protocollo “Liberi di Scegliere”, che prova a proteggere i ragazzi anche da un contesto familiare che è spesso lo stesso in cui “nasce” il crimine. Quanto è difficile?

Si tratta di un argomento molto delicato perché anche i genitori, come la mamma di cui parliamo nel corto, sono a loro volta chiusi in dinamiche complesse da cui uscire. Per questo noi non dobbiamo arrenderci e offrire un’opportunità di cambiamento ai ragazzi attraverso il teatro, che può diventare lavoro. Penso all’esperienza che abbiamo fatto con il Teatro Biondo di Palermo, che ha contrattualizzato per il periodo di spettacolo i ragazzi che all’interno del percorso di rieducazione hanno preso parte al nostro laboratorio. L’idea di firmare un contratto, di lavorare è stata per i ragazzi un motore, un’opportunità creativa e occupazionale al tempo stesso.

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