Ordinario di economia politica nell’università del Sannio, Presidente uscente del Fondo Pensione Cometa dei lavoratori metalmeccanici, direttore di “Economia e Politica”, Riccardo Realfonzo è uno dei massimi interpreti del pensiero di Augusto Graziani, di cui è stato allievo. Keynesiano per convinzione scientifica, nel settembre 2013 è stato promotore e primo firmatario de “Il monito degli economisti”, l’appello pubblicato dal Financial Times, che metteva in guardia dai rischi dell'austerità. L'appello è stato firmato da eminenti economisti di tutto il mondo, tra cui Philip Arestis, Wendy Carlin, James Galbraith, Alan Kirman, Jan Kregel, Dani Rodrik, Malcolm Sawyer, Tony Thirlwall.

Nonostante i proclami della Meloni, l’Italia è ancora il paese europeo con i salari più bassi, col debito pubblico più alto, e una crescita da “zero virgola”. Quanto pesa un mercato del lavoro frammentato e precario sulla scarsa competitività?

Lavoro precario e bassa competitività sono fenomeni strettamente connessi. Per comprendere il punto occorre sottolineare che sull’economia italiana gravano due pesanti strozzature, relative al sistema delle infrastrutture e all’apparato produttivo. Da un lato, il Paese ha accumulato un enorme ritardo rispetto alle aree dell’Europa centrale in termini di ammodernamento delle infrastrutture materiali e immateriali, soprattutto a causa del gigantesco sotto-investimento pubblico degli anni dell’austerità. Mi riferisco soprattutto al periodo tra il 2007 e il 2019. Dall’altro lato, anche l’apparato produttivo è inadeguato, perché costituito prevalentemente di piccole e piccolissime imprese, intrinsecamente deboli, che investono ben poco in nuove tecnologie, in formazione del personale e presentano modelli di governance obsoleti. La conseguenza di tutto questo è che la produttività del lavoro ristagna. Basti pensare che tra il 2007 e il 2023 il prodotto per ora lavorata è cresciuto in Italia appena dell’1%, contro il 4% della Francia e il 10% della Germania. In queste condizioni di arretratezza del contesto territoriale e dell’apparato produttivo, il lavoratore diventa la variabile dipendente: il suo lavoro, il suo salario, la sua stessa vita sopportano tutto il peso per garantire briciole di competitività al sistema. Briciole con cui comunque il sistema Paese non riesce a crescere.

Leggi anche

Modificare il Jobs Act per via referendaria con i quesiti promossi dalla Cgil è utile al Paese?

Ridimensionare il Jobs Act è indispensabile per rompere il circolo vizioso che ho appena descritto. Limitando la precarietà e riaffermando i diritti elementari dei lavoratori si creano le condizioni per interrompere la progressiva caduta della quota del Pil che va ai redditi da lavoro, e per imporre all’economia italiana una strada diversa per la ricerca della competitività. Per fermare il declino di questo Paese e riconquistare quote nel commercio internazionale occorre imprimere progressivamente un cambiamento profondo al nostro modello di specializzazione produttiva. Non più una competitività da bassi costi, bensì la ricerca di una competitività che si fondi su un sistema infrastrutturale avanzato, sulla ricerca scientifica e sulle nuove tecnologie. Sarebbe una svolta di primaria importanza per favorire la crescita, ridurre il debito pubblico e riprendere il cammino verso il progresso sociale.

Il terzo quesito vuole reintrodurre limitazioni all’utilizzo dei contratti a tempo determinato. Nell’era del digitale e dell’interconnessione, un mercato del lavoro flessibile non sarebbe invece auspicabile

Quando la flessibilità riguarda i ruoli dirigenziali, la frontiera della ricerca, le professionalità più spiccate, dunque i lavoratori “forti” sul piano contrattuale, può anche essere una virtù. Quando viene imposta alla grande maggioranza dei lavoratori è solo uno strumento per disciplinare l’impegno e comprimere i salari. D’altronde, tutti gli studi econometrici che si sono interrogati sull’esistenza di una relazione tra flessibilità e Pil hanno concluso che non vi è alcuna correlazione significativa. L’unica evidenza che questi studi restituiscono è che la flessibilità riduce la quota salari sul Pil e conseguentemente favorisce l’aumento di rendite e profitti.

In questi giorni si sono registrati fino a 10 morti da lavoro in 24 ore, la strage sembra inarrestabile. Condividi la strategia della Cgil, che sta raccogliendo le firme sul quesito referendario che mira ad estendere la responsabilità all’impresa appaltante in caso di infortunio?

Anche in questo caso la risposta non può che essere affermativa. Nel nostro Paese si muore stabilmente sul lavoro molto più che nel resto d’Europa. E questo evidentemente non è un caso. Tutti capiscono che un modello di specializzazione produttivo arretrato come il nostro espone i lavoratori a grandi rischi. Su cosa si regge il sistema degli appalti e subappalti se non sulla compressione dei costi di produzione? E questo cosa significa se non compressione dei salari, ritmi di lavoro infernali, mancanza di controlli e sistemi di sicurezza? È troppo facile affidarsi ai subappalti e chiudere gli occhi di fronte al rischio a cui vengono esposti i lavoratori. Non è questo il Paese che vogliamo. E d’altra parte le belle parole e le esortazioni stanno ormai a zero. È urgente che il nostro sistema produttivo compia un salto tecnologico e dimensionale. E i quesiti referendari spingono nella direzione giusta.

Leggi anche