Pare che da oggi la cittadinanza italiana non si trasmetta più come l’influenza, ma come il tartufo bianco: rara, pregiata, riservata a pochi fortunati che possono dimostrarne la purezza genetica. Altro che ius sanguinis qui siamo al ius selettivis, dove il dna tricolore deve essere garantito e certificato, possibilmente da un notaio vestito da carabiniere.

Con 137 sì, 83 no e due anime smarrite che si sono astenute, la Camera ha dato il suo definitivo imprimatur al nuovo decreto cittadinanza. Una stretta che sa di chiavistello d'ottone arrugginito, applicata direttamente sull’albero genealogico di milioni di discendenti di connazionali sparsi per il mondo. Solo due generazioni di “sangue buono” saranno tollerate: padre o nonno nati nel Belpaese e purché non abbiano osato mischiare quel sangue prezioso con quello di altre cittadinanze.

Se il nonno era emigrato e si era fatto anche la cittadinanza canadese per non morire di freddo e povertà? Niente passaporto tricolore per i nipoti. L’Italia si ama, ma da lontano e in silenzio. Intanto, i minori apolidi – quelli senza patria, senza bandiera, senza neanche un nonno con l’accento di Canicattì – potranno forse diventare italiani se qualche adulto responsabile decide per loro. Sempre che il minore non osi muoversi dal paese per almeno due anni.

E poi c’è l’“oriundometro”, l’ultima frontiera dell’ingegno italico: si entra con il decreto flussi solo se il proprio bisnonno è stato abbastanza povero da emigrare nel paese giusto, uno di quelli “di rilevante emigrazione italiana”. Chi lo decide? Ma il ministro degli Esteri, ovviamente.

In sintesi: la cittadinanza italiana non è un diritto, ma un premio a punti. E come ogni tessera fedeltà che si rispetti, scade. D’altronde, siamo il Paese dove il sangue vale più dei valori, ma solo se non è troppo diluito.