C’è un’arte che nessuno ci toglierà mai, quella di dire sì con tanta grazia da sembrare un no, e di dire no con tanto garbo da sembrare un sì. È la coreografia preferita della politica nostrana, il balletto dell’ambiguità. E così Giorgia Meloni, davanti al mondo, sfodera l’ennesima trovata: riconoscere lo Stato di Palestina, certo, ma solo se il diavolo si converte e l’acqua smette di bagnare.

Le due condizioni poste sono da manuale di illusionismo. Prima gli ostaggi liberati, poi Hamas cancellata come una macchia di vino da una tovaglia bianca. Un incanto verbale che non produce effetti reali, ma intanto fa la sua figura nei comunicati stampa. È la perfezione del “vorrei ma non posso”, elevato a strategia diplomatica: un’architettura fatta di aria fritta, con fondamenta di cerone e palchi da avanspettacolo.

Il paradosso è tutto qui, pretendere che chi dovrebbe sparire sia lo stesso che dovrebbe offrire la chiave della soluzione. Un sofisma talmente fragile da reggere solo nella liturgia del Parlamento, dove si preferisce brindare alla logica capovolta piuttosto che sporcarsi con la realtà. Siamo all’ennesima alchimia melonesca: un parlare grave, scandito, con l’aria di chi porta sul tavolo la “soluzione definitiva”, quando in realtà si tratta di un’equazione senza risultato.

Dietro l’apparente fermezza c’è solo il vuoto di una posizione che si regge sul nulla. Condizioni che nessuno potrà mai rispettare, enunciate come se fossero clausole notarili. Il Medio Oriente brucia, ma a Roma basta un comunicato ben impaginato per sentirsi protagonisti della storia, pur restando saldamente comparse.

Eccola, la “risoluzione all’italiana”, un inno all’arte suprema del rinvio, una carezza che è in realtà un’alzata di spalle, l’ennesimo specchio per le allodole dipinto con smalto tricolore. Se esistesse un campionato mondiale del non decidere, il nostro Paese sarebbe sempre in finale. E forse è questa l’unica vera coerenza che ci resta.