Non c’è niente di clandestino in quei luoghi chiamati “phica.eu” o “Mia moglie”. Non catacombe, ma centri commerciali a cielo aperto, con espositori e clienti, merci e pubblicità. Io ci sono passato accanto, ho visto i corpi rubati, i commenti predatori, gli insulti travestiti da divertimento. Ho sentito l’odore di fogna e ho preferito tapparmi il naso, come se non fosse affar mio. Fingere sorpresa oggi sarebbe solo un atto di ipocrisia.

Io stesso ho indossato la maschera dell’estraneità. Ho detto “non tutti siamo così”, mi sono autoassolto con la patetica ricevuta di rispetto che ogni uomo brandisce a difesa della propria immagine. Ma la verità è che il mio silenzio è benzina: se non parlo, se non contraddico, se non mi espongo, sono io a tenere accese quelle piazze. Non è neutralità, è complicità camuffata da educazione.

Le donne che finiscono in quelle vetrine non lottano solo contro i predatori, ma anche contro il vuoto che io contribuisco a mantenere. Quando non interrompo la battuta, quando lascio correre la chat, quando non contesto l’amico, divento il pubblico che applaude tacendo.

Non basta invocare la chiusura di quei siti: sarebbe un’operazione tecnica, rapida, ma sterile. Il cantiere vero è culturale: smantellare il pilastro del silenzio, imparare a parlare, a segnalare, a denunciare, a non ridere, a non cliccare, a non condividere. Non sono fantasmi – questo patriarcato e questa violenza diffusa – è il condominio in cui abito. E se non busso alle porte per dire basta, resto il portinaio dell’orrore.

La scelta non è più collettiva, è personale, quotidiana, maschile in un senso nuovo: non dominio, ma coraggio. Non più spettatore. O scendo in cortile e interrompo la festa oscena o divento arredo, mobilio silenzioso di un bordello che si finge community.