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L’Europa firma. Gli Stati Uniti incassano. E noi paghiamo. L’accordo sui dazi al 15% è la cronaca di una capitolazione annunciata, travestita da intesa strategica. Si scrive “partenariato”, si legge “servitù”. In cambio di gas più caro e armi made in Trump, l’Unione Europea svende la propria voce e i propri interessi. È la geopolitica del tappetino, e il nostro continente si è specializzato nell’arte di farsi calpestare.
La nostra premier, quella del “ponte con gli Stati Uniti”, ha raccontato per mesi la favola del pareggio: zero a zero, diceva. È finita che Trump segna a porta vuota, noi torniamo negli spogliatoi con le ossa rotte. I dati fanno male: 23 miliardi di export in fumo e 100mila posti di lavoro a rischio. Un’eutanasia industriale firmata con il sorriso.
Ci preparano all’ennesima stangata in bolletta ricevendo in dono l’obbligo di aumentare le spese militari al 5% del pil. Quattrocentoquarantacinque miliardi in dieci anni. Una tassa occulta per ingrassare il mercato delle armi, che nessun Parlamento ha votato ma che tutti dovremo pagare. Il patriottismo, a quanto pare, finisce sempre in fattura.
E poi ci sono loro, Von der Leyen e Meloni, paladine della sottomissione elegante che hanno barattato il margine di trattativa con qualche fotografia in posa e due pacche sulle spalle. Nessun risultato, nessuna condizione, solo una lunga lista di obbedienze. Donald detta, loro applaudono. Convinte che l’irrilevanza sia una forma di diplomazia.
Finale amarissimo per l’Italia. Un paese che non alza più la testa, la china. Non decide, esegue. Sventola la bandiera nei comizi, ma si genuflette nei consessi che contano. La patria, in fondo, è diventata un gadget elettorale. Comodo, tascabile, Usa e getta.