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Satnam Singh è morto il 19 giugno 2024, lasciato agonizzante per strada dopo essersi amputato un braccio in un incidente sul lavoro. Per settimane ci siamo indignati. Titoli, tweet, invocazioni di giustizia. Poi il silenzio. A un anno dalla sua uccisione – perché di questo si tratta – il processo è partito con la grazia di una locomotiva senza rotaie. L’Italia che si commuove facilmente si è beatamente voltata dall’altra parte.
Le prime pagine hanno già altri eroi. I politici hanno altri comizi. I talk show si sono rimessi comodi. Intanto, nei campi dell’Agro Pontino, la raccolta continua. Cambiano i volti, ma restano gli stessi orari, gli stessi caporali, lo stesso odore di sfruttamento. Satnam, chi? Una meteora nell’universo dell’indignazione a tempo determinato. C’era da scommetterci: nessuno ha rispetto per la memoria quando il presente è fatto di scroll compulsivi.
Eppure, da allora, di morti ce ne sono stati tanti. Non solo nei campi, ma nei cantieri, nei magazzini, nelle fabbriche. Operai sfiancati, corrieri stroncati, tecnici folgorati. C’è chi cade dai ponteggi e chi muore soffocato nelle serre. Ma i loro nomi non fanno notizia. Il dolore, quando è seriale, perde appeal. Troppo scomodo per andare in trend.
Ci piace raccontarci che il lavoro è libertà, che la Costituzione lo fonda. Ma quando quel lavoro uccide, è come se fosse colpa del destino. Una fatalità. Una svista. Di certo mai una responsabilità. I morti sul lavoro sono fantasmi scomodi, da cui distogliere lo sguardo mentre si fa la spesa con frutta a un euro al chilo.
Chiedi chi era Satnam Singh. Di risponderò che era un lavoratore. Era un essere umano. Era una vittima. E oggi è, soprattutto, un promemoria: che ricordare non è un atto di nostalgia, ma un dovere civile. Perché dimenticare significa lasciare che accada di nuovo. E sta già accadendo.