Genova, 20 luglio 2001. La città è blindata. Inizia il G8. Da una parte il summit tra i grandi del mondo, dall’altra l’enorme risposta del movimento no-global con 300mila persone a rivendicare un altro modello di sviluppo. Il pomeriggio precedente i manifestanti hanno sfilato pacificamente. Attorno alle 14  del 20 luglio, però, scoppiano i disordini.  Un tumulto che scuote le strade dalla città.

560 feriti, 360 arrestati e fermati, 25 milioni di euro di danni, 62 manifestanti e 85 appartenenti alle forze dell’ordine sotto processo. Sono i numeri dei ‘ Fatti di Genova’, la perdita dell’innocenza della nostra generazione. Genova della Scuola Diaz. Genova dei lacrimogeni, degli spari, delle violenze, del sangue. Genova di Carlo Giuliani.

“Arriva al volo da Internet - scriveva Alberto Gedda su l’Unità - dal sito della Cnn Italia, l’immagine simbolo della giornata firmata dall’agenzia Reuters: un giovane, ripreso di spalle, con il passamontagna calato (forse blu, non il nero dei «Black Block») e in canottiera dalla quale spunta un tatuaggio è rivolto verso una jeep presumibilmente dei carabinieri, dato il colore blu. Il giovane brandisce un oggetto che pare una bombola del gas, arancione (tipo quelle usate in campeggio) verso l’equipaggio della "Campagnola" dalla quale spunta una pistola puntata verso il manifestante. L’immagine successiva mostra la jeep che parte sgommando e travolgendo un corpo a terra che sembra proprio essere quello del giovane ripreso un attimo prima. Ed è in quell’attimo che scatta la storia: in quel secondo imprigionato dall’obiettivo di un fotografo attento e intelligente, forse anche fortunato, ma che di sicuro sente la piazza e la racconta con il suo apparecchio appeso al collo. La cronaca si è fermata, sospesa e inchiodata in quei due scatti effettuati a ripetizione: scatti che dimostrano, testimoniano, fissano, non interpretano né spiegano ma che di certo lasciano sconvolti. Fra i due scatti dell’otturatore c’è il dramma che le immagini annunciano e poi ratificano, lasciandoci dentro l’angoscia di quel colpo d’arma che non vediamo ma che intuiamo persino in modo fisico, tremendo, intollerabile. Le ruote che girano sul quel corpo riportano ad Annarumma, la pistola puntata ci rimanda all’immagine drammatica del 1977 con il giovane manifestante dell’Autonomia che impugnava la pistola per sparare ad altezza d’uomo, con due mani e gambe piegate a mirare l’obiettivo. Immagini che raccontano più di un libro: non spiegano, ma evocano, fanno sentire colpi e fumi, urla e silenzi stralunati”.

“Abbiamo visto immagini che non avremmo mai voluto vedere - scriverà Maria Novella Oppo - sentito parole che non avremmo mai voluto sentire. Dopo le ridicole perlustrazioni, i ridicoli veti per i panni stesi e le ridicole vanterie di chi aveva voluto cambiare il volto di una città, la lussuosa farsa si è trasformata in tragedia. I panni stesi si sono trasformati nel lenzuolo che ha coperto il corpo insanguinato di un ragazzo. I cosiddetti grandi si sono riuniti dentro un bunker fiorito, mentre fuori, oltre le fortificazioni medioevali e le barriere di ferro lunghe chilometri, si scatenava l’inferno. Inferno per i pochi delinquenti e violenti e per i tanti non violenti e pacifici. Inferno anche per i poliziotti che, schierati in quantità e modalità di guerra, non hanno saputo impedire la violenza e l’hanno anche praticata. Il ministro dell’interno, che si crede Napoleone per aver inventato le liste civetta, ha costruito una grande muraglia, una inutile trappola. Ma dovunque, tra i proiettili dei lacrimogeni, i sassi e le fiamme, c’erano telecamere e cineprese, impugnate anche da manifestanti. Tutto sarà rivisto e studiato. Forse il G8 non si terrà più a scapito di una città e di una comunità civile, ma anche il ragazzo che è morto non andrà più da nessuna parte e neppure potrà più pensare che il mondo fa schifo e che le inferriate non possono oscurare lo schifo, la protesta, la vergogna e il dolore”. 

Ciascuno di noi ricorda perfettamente dove fosse e cosa stesse facendo nell’attimo degli spari a Carlo, un ragazzo, come noi. Il suo corpo a terra in quella posa terribile e innaturale, quell’urlo “Dio mio no…” che squarcia il silenzio, entra in milioni di case e continua a rimbombare nelle nostre teste. Carlo in tuta e canotta, il passamontagna sul viso, l’estintore in mano. Carlo e Mario. Due ragazzi più o meno coetanei. Mario spara.  Carlo muore.