Succede a Roma, un sabato mattina d'inizio luglio in un grande nosocomio della capitale. Un’infermiera arriva di fretta e trafelata lungo il corridoio di un reparto, vede una signora e da lontano le domanda se ha già chiesto ciò di cui ha bisogno. Si sente rispondere di no e, sorprendentemente per la sua interlocutrice, scoppia a piangere. Si scusa imbarazzata, spiega di non farcela più: sono giorni che fa i doppi turni perché manca personale e non arriva il cambio. In questo racconto non ci sono il nome dell’ospedale e quello dell’infermiera ma la storia è assolutamente vera. E, purtroppo, non così insolita.

Quella che si è appena affacciata è la terza estate dell’era Covid, ma diversamente dalle precedenti questa volta il virus circola come fosse inverno, lasciando stupefatti quanti si aspettavano una tregua, magari preludio di una rarefazione della pandemia. E invece così non è. Anche stavolta sembra che il servizio sanitario nazionale si sia fatto cogliere impreparato. Per fortuna all'impennata dei contagi non corrisponde in maniera proporzionale l’occupazione di posti in ospedale. Anche se il numero di ricoveri, sia nei reparti ordinari che in quelli di terapia intensiva, continua ad aumentare. È tanto vero che i nosocomi cominciano a riaprire i reparti Covid chiusi settimane fa, sono tornate le file di ambulanze davanti ai pronto soccorso.

Racconta la dottoressa Mancinella, medico di base a Roma: “Un paio di settimane fa la figlia di una mia paziente mi ha chiamata, la sua mamma era caduta in terra. Le ho suggerito di chiamare il 118: io ero a casa di un altro ammalato e peraltro non avrei potuto spostare una donna anziana caduta a terra. Mai mi sarei immaginata – aggiunge – che dalle 11 del mattino, ora della chiamata al 118, l’ambulanza si sarebbe presentata alle 17.30. Le cause - conclude - sono facili da immaginare. Le ambulanze, già poche per una città come Roma, rimangono bloccate ai pronto soccorso degli ospedali visto che i malati di Covid non trovano posto rapidamente negli ospedali”. In realtà a non trovare posto sono tutti i pazienti che arrivano in pronto soccorso.

Queste storie le abbiamo raccontante tante volte: pochi operatori, soprattutto nei reparti di emergenza urgenza. Pochi posti letto nei reparti ospedalieri che non riescono ad accogliere quanti hanno bisogno di cure, siano contagiati dal coronavirus o abbiano contratto altre patologie. Per rendere più efficiente la sanità di territorio si confida nel Decreto ministeriale 77, quello che attua una parte importante della missione 6 del Pnrr. È da poco stato pubblicato in Gazzetta ufficiale, ora occorre costruire case e ospedali di comunità e per andare a regime ci vorranno tre anni. Quanti e quali operatori e operatrici vi lavoreranno però non si sa visto, che il piano di assunzioni necessario a fare funzionare i servizi al momento non è previsto. E nel frattempo? L’organico del servizio sanitario nazionale è sottodimensionato in tutta Italia. Non solo, ma siamo al paradosso che i contratti a tempo determinato di medici e infermieri delle Usca sono scaduti a fine giugno e così ci si è privati di un servizio territoriale indispensabile.

“È terribile la chiusura delle Usca in questa fase", perché senza il contributo delle Unità speciali di continuità assistenziale nella gestione del territorio, in questo momento di ondata estiva di Covid-19, c'è un "rischio di affollamento ospedali". Una possibilità reale secondo il virologo Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario dell'Irccs Galeazzi di Milano e docente UniMi. Lo smantellamento anticipato delle Usca, spiega all'Adnkronos Salute, alla luce del rialzo dei numeri della pandemia in Italia, è un problema nel problema.

"Le Usca - afferma il medico - rappresentano l'anello di congiunzione tra ospedale e territorio, in quella che deve essere la filiera dell'assistenza ai pazienti Covid. Vanno assolutamente riattivate", anzi di più: "Questo tipo di intervento va proprio strutturato", mantenuto stabilmente, esorta Pregliasco. "Se vogliamo possiamo modificarlo nell'organizzazione in base al contesto e alle esigenze. Ma è davvero necessario - assicura -, per fortificare la trincea del territorio e proteggere gli ospedali che devono poter garantire cure anche a tutti gli altri malati e recuperare i ritardi accumulati nelle fasi emergenziali”.

Se vogliamo continuare con i paradossi, scopriamo, ad esempio, che pur essendo il servizio sanitario del Lazio al collasso per mancanza di personale, nel bando per il reperimento di infermieri appena lanciato dalla Asl Roma 2 sono stati autorizzati solo il 20% dei posti da infermiere richiesti dalle aziende. Del concorso per gli operatori socio-sanitari non c’è proprio traccia, così come non ve ne è per le altre figure professionali, per non parlare della stabilizzazione dei precari.

I sindacati non ci stanno.  Giancarlo Cenciarelli, Roberta Chierchia e Sandro Bernardini, segretari generali di Fp Cgil Roma e Lazio, Cisl Fp Lazio e Uil Fpl Roma e Lazio annunciano battaglia: “La carenza di personale sta bloccando i servizi alla salute e la Regione continua a tenere fermi i concorsi, facendo saltare tutti gli accordi sottoscritti. Non assisteremo a questo tracollo senza fare nulla. Abbiamo proclamato lo stato di agitazione del personale e siamo pronti ad arrivare allo sciopero”.

Ma cosa succede negli altri territori? Andare in ogni luogo è davvero impossibile ma proviamo a fare qualche esempio. A Venezia la sanità è al collasso. È questa la denuncia dello Spi e della Cgil provinciale. I segretari generali Daniele Giordano e Daniele tronco sono preoccupati e allarmati, perché “i bisogni di salute dei cittadini durante la pandemia sono stati sospesi” e l'attuale carenza di personale non solo impedisce di recuperare ciò che non si è fatto ma non riesce a dare risposte a chi si ammala. Lo scorso 16 luglio, nei soli ospedali bolognesi mancavano quasi 300 tra infermieri e ooss, tutti a casa perché positivi al Covid. A loro vanno aggiunte dieci donne in congedo per maternità e altri assenti per patologie non Covid. Risultato? Quasi impossibile garantire la copertura di tutti i turni.

Lo scorso 6 luglio, invece, una diffida è partita verso l’assessorato regionale e i direttori sanitari dell’Abruzzo, a firmarla la Cgil e la Fp Cgil dell’Abruzzo e Molise: “Si rischia la lacerazione del tessuto sociale”, questo l’allarme lanciato. In Umbria, invece, la denuncia arriva da Nidil Cgil perché la Regione il 1° luglio non ha rinnovato i contratti in scadenza per 75 eroi della pandemia.

“Stiamo cercando medici dappertutto, come fossero giocatori di calcio. Li inseguiamo e li corteggiamo ma non li troviamo”. A parlare è Michele Emiliano, presidente della Puglia, i cui ospedali da tempo sono davvero oltre il collasso. A lui però si rivolgono Cgil, Cisl e Uil medici della Puglia, che hanno inviato un documento in Regione chiedendo: “Quali iniziative l'assessorato alla Salute intende adottare per affrontare la recrudescenza dei contagi da Sars-Covid nella variante Omicron 5, tenuto conto della cessazione del servizio Usca dal 30 giugno".

"L'estate - scrivono - è ormai arrivata e si presenta con gli stessi irrisolti problemi, a partire dalla drammatica condizione della continuità assistenziale e del servizio dell'emergenza-urgenza che, ricordiamo, ha 200 medici in meno rispetto alla dotazione prevista. Non meno grave appare l'annoso problema dei pronto soccorso, che già versano in grandissima difficoltà a causa delle inaccettabili croniche carenze di organico e rischiano il collasso per l'aumento dell'utenza, con decine di pazienti in attesa per giorni di un posto letto, e per la ulteriore riduzione dei medici addetti in ragione del dovuto e necessario periodo di ferie". Per questi motivi, "riteniamo urgente e indispensabile - aggiungono - la stabilizzazione del personale precario e un piano straordinario di assunzioni".

Potremmo continuare, ma in qualunque regione andiamo scopriamo situazioni analoghe. Con l’aggravante al Sud che i servizi funzionano peggio che al Nord. Magari succede come in Campania, col servizio sanitario regionale che ha sostanzialmente appaltato ai privati gli screening di routine per i malati oncologici ma a budget mensile; significa che ogni mese fare analisi del sangue e indagini è un terno al lotto. Peccato che chi è in terapia per un tumore non possa affidarsi alla fortuna. Il Covid avrebbe dovuto insegnarci che senza un servizio sanitario pubblico e universale è a rischio la salute pubblica. Servono medici, infermieri, ooss, tecnici e personale amministrativo. E servono risorse ordinarie, ora.