Il 26 agosto 2004 il giornalismo italiano perdeva Enzo Baldoni. Giornalista freelance, pubblicitario, blogger, uomo in grado di raccontare senza filtri né retorica le brutalità della guerra.

A partire dagli anni Novanta, Baldoni attraversa scenari di conflitto e marginalità in ogni angolo del mondo: dal Chiapas degli zapatisti alle fogne di Bucarest  accanto a bambini già dipendenti dalla droga. È tra i Karen perseguitati in Birmania, si mischia tra i guerriglieri di Timor Est agli ordini del futuro presidente della repubblica Xanana Gusmão, visita il lebbrosario di Kalaupapa alle Hawaii. In Colombia raggiunge un campo delle Farc, dove intervista un comandante con una taglia da un milione di dollari sulla testa.

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Chi si ricorda di Enzo Baldoni?

Durante il suo ultimo viaggio in Iraq, inviato per Diario della settimana, Enzo fu rapito lungo la strada tra Baghdad e Najaf mentre era impegnato ad aprire la strada a un convoglio di aiuti della Croce Rossa di cui da anni era volontario. La sua voce si spegne pochi giorni dopo nel silenzio delle istituzioni italiane, che preferiscono non muovere un dito pur di non incrinare l’alleanza con gli Stati Uniti. Omissioni, mezze verità, bugie: fu questa la cornice politica della sua morte. Oggi, guardando a Gaza, quel silenzio torna familiare.

L'abbandono da parte del governo

Nell'estate del 2004 il governo di centrodestra scelse la linea dura: niente trattative, nessuna reale pressione diplomatica. In quei giorni, mentre Baldoni era nelle mani dei rapitori, si attivò anche una sbalorditiva macchina del fango per denigrare il suo lavoro. Giornalisti a libro paga dei servizi segreti lo dipinsero come un avventuriero irresponsabile, insinuarono che la sua presenza in Iraq fosse una leggerezza personale e non attività giornalistica. Una narrazione tossica, funzionale a scaricare ogni responsabilità dalle istituzioni ea trasformare la vittima in colpevole.

Baldoni, invece, era un corpo estraneo al racconto ufficiale della missione Antica Babilonia: non un eroe in divisa, ma un uomo che scriveva dei civili bombardati, delle contraddizioni della guerra, della paura e della dignità di chi restava invisibile. La sua indipendenza lo rese scomodo, e lo condannò a una solitudine letale.

Gaza, oggi

Ventuno anni dopo, a Gaza, i giornalisti pagano lo stesso prezzo. Sono oltre 270 quelli uccisi in 24 mesi, cinque soltanto nella giornata di ieri: cronisti locali, fotoreporter, collaboratori di agenzie internazionali, operatori che documentavano la devastazione. Colpiti mentre raccontavano, spesso presi di mira volutamente. Anche loro voci libere, indispensabili per restituire un volto umano alla tragedia. Anche loro troppo scomodi per i governi che preferiscono avere il controllo della narrazione sui giornali.

E ancora una volta assistiamo a omissioni, silenzi e bugie. Le cancellerie occidentali parlano di “incidenti”, di “effetti collaterali”, mentre si consuma un attacco sistematico al diritto di informare. Lo stesso linguaggio ambiguo che, nel 2004, coprì l’inerzia italiana davanti al sequestro di Baldoni.

La verità che brucia

Il filo che lega Baldoni ai giornalisti di Gaza è il prezzo della libertà di parola. Non basta dire “non dimentichiamo”, bisogna avere il coraggio di guardare in faccia le responsabilità politiche. Chi tace, chi minimizza, chi si rifugia nelle formule burocratiche diventa complice.

Enzo Baldoni lo aveva capito: raccontare significa scalfire il muro dell’indifferenza . Per questo scriveva di dettagli, di vite comuni, di umanità. Per questo le sue parole erano considerate un disturbo. Gaza oggi è il suo specchio: lì dove chi prova a mostrare il dolore viene messo a tacere con le bombe, lì dove il mondo volta lo sguardo, proprio come l’Italia ha fatto ventuno anni fa.

La memoria come presente

Ricordare Enzo Baldoni non è solo un esercizio di memoria. È chiedersi se, davanti a Gaza, stiamo ripetendo lo stesso errore. Se continuiamo a lasciare soli i giornalisti, a coprire con retoriche e silenzi la violenza che li uccide. La lezione del 2004 non è stata imparata: oggi, come allora, la verità è scomoda e chi la racconta paga il prezzo più alto.