Se dopo 23 anni di pronto soccorso ancora non ha gettato la spugna vuol proprio dire che il lavoro che svolge gli piace. Bruno Zecca di anni ne ha 56, da 23 al pronto soccorso dell’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, il suo racconto si srotola lucido e appassionato. “Ho cominciato a lavorare con una grande motivazione e da tempo mi domando come mai i miei colleghi fuggano dai dipartimenti di emergenza e urgenza. Temo che le risposte più diffuse a questo interrogativo siano sbagliate”.

La patologia dell’emergenza urgenza

Ma come, ci domandiamo non è la carenza di medici, la fatica dei turni e una retribuzione non adeguata a far sì che quella del medico del pronto soccorso non sia una professione tanto ambita? “È riduttivo e forse anche un po’ banale pensare che le ragioni della fuga siano queste, la diagnosi è sbagliata”. Afferma convinto Zecca che spiega: “Certo che dovremmo essere pagati di più, ma vale anche per tutte e tutti gli altri operatori sanitari. Certo che è un lavoro duro con turni notturni sabato domenica e festivi, ma è sempre stato così e fino a 10 anni le iscrizioni ai corsi di specializzazione in medicina erano in aumento. La verità è che le condizioni di lavoro sono cambiate negli ultimi 10 anni perché i decisori politici non hanno capito quale dovesse essere la funzione della medicina d’urgenza”.

La diagnosi

I pronto soccorso degli ospedali dovrebbero essere un punto di snodo della sanità in rete: territorio e ospedali. “Se le cittadine e i cittadini non trovano le risposte che servono nel territorio inevitabilmente si riversano nei Ps che diventano l’unico modo per fare visite specialistiche e accertamenti diagnostici altrimenti quasi inaccessibili in tempi ragionevoli, se non ha pagamento”. Riflette amaro ma consapevole il dottore, e aggiunge: “La condizione che ho vissuto in questi anni è stata quella di un progressivo impoverimento della mia professione, legato soprattutto l'incapacità degli amministratori degli ospedali di capire quale fosse il vero nodo fondamentale, ovvero incapacità di interpretare quello che stava accadendo. Non aver capito che accentrare tutto negli ospedali impoverendo il territorio ci avrebbe condotto dove siamo ora”.

Professione svilita

E il dove siamo ora è sotto gli occhi dii tutti, sovraffollamento, scarsità di personale, disagio per operatori e pazienti.  E il Covid è stato un catalizzatore di tutti i problemi disvelando la crisi. Ma c’è di più: “non sappiamo più bene quale sia il nostro ruolo. Dovremmo essere medici dell’emergenza e invece suppliamo a tutte le assenze del territorio rischiando di far male quello che dovrebbe essere il nostro compito”. Solo insipienza e pressapochismo? “No, risponde Zecca, autoreferenzialità degli amministratori che hanno come obiettivo il bilancio e molto meno la salute dei cittadini. Non hanno avuto nessuno cura delle ‘risorse umane’ senza le quali nessun servizio sanitario può funzionare”.

Sbagliata la diagnosi, sbagliata la cura

Certo è che tra il mancato tur over del passato e la fuga di oggi, la carenza di personale è una drammatica realtà. Ma se non si capiscono le cause difficilmente la ricetta pensata per ovviare alla mancanza di medici potrà essere efficace. “Molti miei colleghi han lasciato gli ospedali milanesi e sono andati in quelli svizzeri, mediamente a 50 chilometri di distanza, e raccontano che lì sono valorizzati come medici, esercitano finalmente la professione per la quale hanno studiato”. Immaginiamo che, in attesa di riuscire a trovare sanitari da assumere la soluzione dei cosiddetti medici a gettone possa essere una soluzione tampone. “Mica tanto – sottolinea Zecca – l’introduzione di questi medici ha, se possibile, svilito ancor di più il nostro lavoro. Quello in pronto soccorso, ma dovrebbe essere così in ogni ambito della sanità, è tipicamente un lavoro in equipe, i medici a gettone inevitabilmente sono fuori da ogni logica di lavoro di squadra, operano a prestazione rendendo complicato il lavoro degli altri operatori”.

Ciò che ci vorrebbe

“Non si può più restare legati a un modello fondato sulle separazioni. Territorio e ospedali; medico di medicina generale, medico ospedaliero, medico specialista. Bisogna fare un salto culturale e organizzare un sistema a rete, non tante monadi ma il paziente al centro di un sistema fatto di tanti punti che comunicano tra loro per la sua salute. Le case del territorio dovranno, dovrebbero, avere all’interno medici di medicina generale, specialisti e la possibilità di alcune indagini strumentali, dalla radiologia alle ecografie fino alle analisi di base di sangue e urine. Emergenza e urgenza e ospedali per le acuzie”.

Il dottor Zecca illustra, con i correttivi dati dal passare del tempo e dall’esperienza sul campo, quando previsto dalla Legge 833 del 78, quella che istituì il Servizio sanitario pubblico e universale dando attuazione all’articolo 32 della Costituzione.