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Il presidente statunitense Donald Trump sostiene che la tregua a Gaza non è a rischio e che “è giusto che Israele si difenda”, bombardando in modo massiccio Gaza su ordine del presidente Benjamin Netanyahu e provocando la morte di circa 100 palestinesi. Appare evidente che per l’inquilino della Casa Bianca il significato di tregua sia differente da quello generalmente condiviso.
Dopo i nuovi attacchi dell’Idf del 28 e del 29 ottobre, a venti giorni dalla firma dell’accordo voluto da Trump, un bombardamento massiccio appare come una palese violazione della tregua, motivata da Israele con altre violazioni da parte di Hamas, con l’uccisione di soldati israeliani a Rafah e la mancata restituzione dei corpi dei 13 ostaggi. Già altri attacchi erano stati sferrati nei giorni scorsi ma di minore entità.
Nessuna tregua per le sofferenze dei palestinesi
In questa tregua a singhiozzo i palestinesi continuano a versare in condizioni di estrema sofferenza e a confermarlo è chi opera sul campo, come Maurizio Debanne, capo ufficio stampa della sezione italiana di Medici senza frontiere tornata a Gaza, il quale ci spiega che “in qualche modo i palestinesi della Striscia in queste settimane stanno cercando di riconquistare quel minimo di sicurezza che avevano perso da ormai diverso tempo e, nel contempo, si rendono completamente conto di aver perso tutto.
Parlo ad esempio di Gaza City: molti colleghi palestinesi sono tornati con l'entrata in vigore del cessate del fuoco e ci raccontano essenzialmente che non si sanno nemmeno più ambientare in quello che era il loro vecchio quartiere. Si perdono perché è soltanto un cumulo di macerie, non non ritrovano più la loro vecchia casa, la strada, il mercato dove andavano, la scuola dei figli, perché di Gaza City essenzialmente non rimane quasi più nulla”.
Debanne entra nelle vite dei palestinesi parlando del peso psicologico della “perdita le piccole cose, dell'ultimo ricordo che avevi dei tuoi genitori, che può essere la fotografia tua madre, tutto ciò che ti rimaneva di lei, o di tuo padre, dei ricordi di famiglia, perché la tua casa di fatto non esiste più”.
Se questa è vita
I gazawi continuano comunque a vivere sotto le tende in condizioni di vita disastrose, in un fazzoletto di terra e con l'inverno alle porte. “Ricordiamo che l'anno precedente ci sono stati anche dei bambini e delle bambine morte di freddo all'interno delle tende – ci dice – e questo spiega come al sud di Gaza, dove la stragrande maggioranza della popolazione vive, Medici senza frontiere è alle prese con le condizioni di vita terribili cui sono sottoposte queste persone. Di fatto il cessate il fuoco non ha alleviato tutte le sofferenze dei palestinesi.
C’è poi il problema dell’evacuazione urgente di circa 15.600 pazienti che è bloccata. Dal 22 è stata evacuata una manciata di pazienti. Sette bambini palestinesi sono arrivati in Svizzera anche grazie alla mediazione dei miei dei nostri colleghi elvetici. Un bambino che era stato evacuato, mentre era in aereo, ha chiesto al nostro al nostro operatore se quell’aereo portasse anche le bombe, perché per lui, ovviamente, il binomio è aereo-bombe”.
Debanne ci fa anche sapere che “tra luglio 2024 e agosto 2025 sono morti 740 pazienti, di cui 137 bambini, perché non c’è mai stata un’evacuazione medica. Quindi gente che era sulla lista d'attesa per essere trasportata è morta in attesa di un intervento chirurgico che non c’è mai stato. Sono persone che hanno bisogno di interventi chirurgici poi ripetuti, urgenti, con cure di follow-up continue, come la chemioterapia ad esempio”.
E il mondo resta a guardare
Il capo ufficio stampa di Msf volge lo sguardo oltre i confini di Gaza: “È vero che l’Italia è il primo Paese occidentale per numero di palestinesi accolti, siamo a circa 196, ma di fronte alla cifra totale l’Europa, il mondo, l’Occidente, tutti i altri Paesi che hanno un sistema sanitario capace di prendersi cura di queste persone, sono chiamati a fare un passo in più. Allo stesso tempo anche Israele è chiamato a far uscire queste persone da Gaza, perché il blocco di queste evacuazioni mediche è dovuto al fatto che Tel Aviv le ha dosate con il contagocce e gli altri Paesi non hanno accolto molte persone. Basti pensare che Francia e Uk stanno a poco meno di meno di 30 persone accolte.
Noi come attori medici cerchiamo di rispondere a questi bisogni. A Gaza ci sono circa 1100 operatori umanitari, di cui mille sono palestinesi e gli altri sono staff espatriato, quindi di tutto il mondo. Abbiamo un chirurgo ortopedico che lavora con noi da tantissimi anni che è ancora in carcere, arrestato dagli israeliani senza un’accusa formale, e non ha ancora potuto contattare la famiglia. Per lui stiamo chiedendo l’immediato rilascio, soprattutto in un momento in cui c’è un estremo bisogno di medici e non solamente”.
A Gaza servono subito tutti gli aiuti, forniture mediche, cibo, acqua pulita, carburante per gli alimentatori, ma serve anche personale medico, “perché dopo due anni di lavoro di un’intensità che non avevo mai visto in nessun altro contesto, le condizioni degli operatori palestinesi sono di stress fisico e mentale. Hanno operato con scarsissimi strumenti medici, interventi chirurgici senza anestesia, scarse forniture mediche: ci siamo ritrovati a dover lavare e stendere le garze da dover riutilizzare perché non arrivavano le forniture. Ripeto, con un inverno alle porte e con condizioni di vita terribili, c’è veramente il rischio che si possano innescare ulteriori malattie o epidemie.
Quale futuro?
Quindi lo sguardo va oltre anche in termini temporali, ai prossimi mesi, ai prossimi anni. “Il livello è talmente catastrofico che non si possono fare previsioni – afferma Debanne – e probabilmente l'approccio migliore è ragionare giorno per giorno. Prima del 7 ottobre entravano a Gaza 500-600 camion di aiuti umanitari al giorno. Ora, anche dopo il cessate il fuoco, i numeri sono invece esigui e instabili”.
“A Gaza non si era mai vista la malnutrizione prima di questi due anni, ma dal 7 ottobre la fame è stata utilizzata come arma di guerra – prosegue –. Abbiamo nelle nostre cliniche donne incinte malnutrite e che non riescono poi chiaramente ad allattare i propri figli quando nascono. Quindi è necessario assolutamente che si ripristini il prima possibile anche il sistema sanitario nazionale, perché dei 36 ospedali che c’erano a Gaza oggi solamente 14 sono parzialmente funzionanti.
Noi, come Msf, supportiamo i due ospedali più grandi, ne abbiamo due da campo e siamo operativi in diverse cliniche, ma è necessario che la risposta sia molto più vasta, perché i bisogni sono veramente immensi e gli aiuti devono entrare nella Striscia e distribuiti in tutto il territorio secondo quanto il diritto internazionale umanitario prevede”.
Debanne chiude ribadendo con una denuncia che riguarda la Ghf, l’organizzazione americana istituita appositamente con lo scopo di distribuire aiuti Gaza e con la quale l’Onu si è rifiutata di collaborare: “Deve essere smantellata la Gaza humanitarian foundation che ha provocato tantissimi morti” sparando addosso ai palestinesi durante la distribuzione degli aiuti, “come abbiamo pubblicato in un nostro rapporto, ci siamo ritrovati con persone colpite da proiettili in punti del corpo che non sembravano affatto frutto della confusione”. Quella confusione adottata invece da Israele e da Ghf come causa della morte di civili in coda per un pezzo di pane.
























