PHOTO
Il settimanale britannico The Economist, in un articolo dal titolo “Incontra i nuovi arrivati nel commercio di armi più promettenti del mondo – Una feroce corsa agli armamenti globale è un grande business”, non valuta solamente il grande incremento della quantità di denaro, e quindi i guadagni, che movimenta il commercio di armi, ma spiega anche come si stiano spostando i pesi degli attori in gioco.
Fermo restando che a investire in nuove armi sono gli strateghi militari di tutto il mondo, anche a seguito della “guerra in Ucraina, alle minacce degli Stati Uniti di abbandonare gli alleati e i timori che la Cina possa invadere Taiwan”, si sottolinea come i vantaggi ora non siano più esclusivamente “degli esportatori tradizionali negli Stati Uniti, in Europa e in Russia: ad approfittarne di più sono invece due ambiziose potenze di medio livello, la Corea del Sud e la Turchia”.
La Corea del Sud
In Europa le aziende europee produttrici di armi stanno ancora ripristinando “la capacità produttiva persa dopo la fine della guerra fredda” e ricostituendo “le scorte esaurite dalle donazioni all’Ucraina”.
In Russia diminuiscono drasticamente le esportazioni a causa dell’impegno bellico in Ucraina e delle sanzioni occidentali e i Paesi come India, Vietnam ed Egitto sono costretti a rivolgersi ad altre fonti, come ad esempio la Corea del Sud che, “a livello mondiale, per quanto riguarda alcune categorie di armi, come carri armati e artiglieria, vende più degli Stati Uniti”, seguiti dalla Francia per gli aerei da combattimento.
The Economist porta l’esempio della Polonia che nel 2022 ha siglato con La Corea del Sud un accordo da 22 miliardi di dollari “per la vendita di una serie di sistemi d’arma. La Polonia vuole scoraggiare un eventuale attacco russo, e in fretta. Per la Corea del Sud è un chiaro segnale che è pronta per un posto tra gli esportatori di armi più importanti, e questo aprirà la porta ad altri accordi redditizi con l’Europa”.
“La Corea del Sud – prosegue il settimanale britannico - può produrre rapidamente equipaggiamenti conformi agli standard della Nato a prezzi vantaggiosi. Sette grandi aziende collaborano con il governo per aggiudicarsi commesse e coordinare la ricerca e lo sviluppo. Mantenere la capacità produttiva è stata sempre una priorità, in parte perché il Paese è tecnicamente ancora in guerra con il suo vicino settentrionale, afferma Chung Min Lee dell’istituto di ricerche statunitense Carnegie endowment for international peace”.
Nell’industria navale, le aziende coreane potrebbero "aggiudicarsi un contratto da 17 miliardi di dollari con il Canada per la costruzione di dodici sottomarini Kss-III, e i limiti produttivi dei cantieri navali negli Stati Uniti potrebbero permetterle di accaparrarsi delle commesse dalla marina statunitense.
Il programma coreano più ambizioso è il caccia Kf-21, che dovrebbe essere pronto per la fine del 2026 e ha suscitato interesse nell’Europa orientale, nel Golfo e nell’Asia meridionale perché il suo prossimo aggiornamento lo trasformerà in un caccia stealth (invisibile) di quinta generazione che competerà con gli apparecchi statunitensi più avanzati”.
La Turchia
Questo Paese, in posizione geografica e politica strategica nelle guerre in corso, negli ultimi cinque anni ha incrementato vertiginosamente l’esportazione di armi, tanto che si è passati “l’anno scorso da un valore di quasi due miliardi di dollari a più di sette miliardi. È il risultato degli sforzi per raggiungere l’autonomia strategica, promossi in parte da un’agenzia per l’industria della difesa (Savunma sanayii başkanlığı, Ssb) gestita da civili, afferma l’esperto di difesa Arda Mevlutoglu”.
I droni prodotti dalla Baykar superano i modelli cinesi e oltre 500 “sono stati venduti ad almeno trenta Paesi. L’Arabia Saudita ha un accordo da tre miliardi di dollari per coprodurre un drone più avanzato chiamato Acinki. La Baykar ha un accordo con l’italiana Leonardo, che sta valutando il drone da combattimento stealth Kizilelma come ‘gregario fedele’ da affiancare ai futuri caccia Gcap di sesta generazione”.
L’influenza diplomatica che deriva dal vendere armi all’Africa e al Medio Oriente è molto apprezzata dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan. “Ma le aziende turche puntano ai Paesi europei, che hanno bilanci più ricchi. Serhat Güvenc, dell’università Kadir Has di Istanbul, afferma che gli europei non possono più permettersi il lusso di preoccuparsi per le violazioni dei diritti umani in Turchia”.
La Turchia ha collaudato le sue armi sulla pelle di curdi, siriani e libici. Armi che “sono costruite secondo gli standard della Nato, a prezzi accessibili, e si vendono senza condizioni. Inoltre, sempre secondo quanto riportato dall’articolo dell’Economist dello scorso 31 agosto, “l’ampiezza dell’offerta turca è sorprendente” e va dai veicoli blindati ai missili, dai sistemi di difesa aerea alle navi da guerra, dai velivoli leggeri d’attacco e addestramento ai droni armati e ai sistemi di guerra elettronica.
La Cina
Il settimanale britannico non dimentica la Cina, dove il 3 settembre ha avuto luogo la commemorazione della fine della seconda guerra mondiale in piazza Tienanmen a Pechino.
Un occasione per vedere insieme i cosiddetti leader dell’“Asse del Disordine”, il cinese Xi Jinping, il nord-coreano Kim Jong-un e il russo Vladimir Putin e altri capi di Stato e di governo. Le truppe cinesi hanno sfilato “in una parata pensata per accrescere l’orgoglio nazionale e mostrare la propria forza militare. E forse, cosa ancora più importante, per mostrare le più recenti attrezzature da guerra cinesi ai potenziali compratori e agli avversari”.
Tutto concorre quindi a soddisfare la “vorace richiesta di carri armati, artiglieria, aerei da combattimento e droni” di molti Paesi, tra i quali anche quelli europei, pronti a fare i salti mortali per aumentare le scorte, rafforzare le forniture e garantire i flussi di munizioni”, gravando così sui bilanci interni che vedono, nella stragrande maggioranza dei casi, denaro sottratto ai servizi essenziali per la salute e il benessere dei cittadini.