La scena è questa. Una fiera che celebra la piccola e media editoria apre le porte a una casa editrice che gioca con l’estetica dell’orrore e sfoggia svastiche in copertina. Nessun incidente, una scelta. E ogni scelta racconta qualcosa del Paese che la genera. Qui racconta che l’allarme scivola verso il sussurro. Che la memoria resta in modalità aereo. Che qualcuno promuove l’idea di un nazismo accomodato tra stand e presentazioni come ospite legittimo. Una pulizia politica al contrario. Si sbiancano simboli che hanno insanguinato il continente, si sterilizzano parole costruite per disumanizzare. Un regalo a chi sogna un ribrezzo normalizzato, addomesticato dall’abitudine.

La risposta di chi resta fuori diventa una frustata salutare. Zero Calcare e altri trasformano l’assenza in atto d’accusa. Affermano che certi confini restano intatti. Nessuna fiera giustifica la prossimità con chi sdogana lo sterminio come identità grafica. Un gesto che elimina alibi. Costringe gli organizzatori a guardarsi allo specchio. Mette in difficoltà chi confonde libertà di espressione e libertà di insultare la storia. Una rinuncia che espone. Una scelta che rifiuta complicità e produce chiarezza morale.

Resta però un altro punto decisivo. Lasciare il campo equivale a offrirlo, senza condizioni, a chi punta a riscrivere il senso stesso della parola cultura. È il terreno ideale della destra estrema. Uno spazio svuotato da chi lavora tra testi, bozze e diritti, pronto per il martirologio di facciata e per l’ingresso trionfale di merchandising tossico e retorica avariata. La sedia libera attende il primo che avanza. La presenza diventa presidio. Una linea di resistenza che si costruisce tra tavoli e scaffali esattamente dove la distorsione simbolica tenta l’assalto.

Il mondo dell’editoria che ogni giorno fatica su pagine, contratti, traduzioni e idee porta con sé la Costituzione senza proclami. Un lavoro che unisce memoria e futuro, che tutela la libertà con rigore. Questo lavoro resta in casa propria e difende il terreno da chi usa la storia come paravento identitario. Chi scrive, stampa, ricerca e diffonde conoscenza rivendica spazio. Resta comunità, non comparsa. A lasciare il passo sia chi sfoggia estetiche della violenza spacciate per libertà editoriale.

La fiera non offre neutralità. Nessun luogo della cultura lo fa. O produce libertà o accompagna la sua erosione. O alimenta pluralismo o accoglie ideologie nate per soffocarlo. La democrazia si consuma così. Un centimetro per volta. Una concessione dopo l’altra. Una rimozione continua. Si comprende la scelta di chi resta fuori, perché quella scelta mantiene acceso l’allarme. E si comprende chi entra, deciso a evitare che lo spazio venga colonizzato nel silenzio generale.

La linea del fronte oggi attraversa gli stand. Da una parte chi considera la cultura un bene comune, dall’altra chi la usa come cavallo di Troia. Chi ama la libertà discute, contesta, diverge e presidia. La cultura rifiuta il subappalto, resiste agli arretramenti, sfugge alla mimetizzazione. Rifiuta cittadinanza a chi trasforma la cittadinanza in bersaglio. Un libro, qui, resta una scelta di campo.