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I lavoratori italiani guadagnano meno di quanto guadagnavano 30 anni fa e meno dei lavoratori di Francia, Germania, Spagna. Lo sostiene la ricerca “La crisi dei salari” realizzata dalla Fondazione Di Vittorio che ha messo sotto la lente di ingrandimento il tema facendo un confronto nel tempo e nello spazio, e confermando quanto evidenziato di recente da numerosi studi e indagini. E cioè che siamo l’unico Paese europeo in cui i salari sono diminuiti rispetto al ’91.
Meno 831 euro in 33 anni
Di quanto? Stando alle elaborazioni della Fondazione su dati Oecd, di 831 euro, ovvero meno 2,4 per cento, mentre in Francia sono aumentati di 10.866 euro (più 31,9 per cento), in Germania di 12.442 euro (più 32,9 per cento), in Spagna di 2.836 (più 9,4 per cento). Si tratta di uno dei temi al centro dello sciopero generale del 12 dicembre, indetto dalla Cgil per rivendicare un aumento di salari e pensioni e per chiedere politiche economiche e sociali più giuste.
Perché i salari in Italia non sono cresciuti in questi anni e anzi sono diminuiti, è presto detto. Innanzitutto a causa del ritardo dei rinnovi contrattuali che vedono coinvolti milioni di lavoratori. Poi c’è da considerare il differenziale tra l’inflazione reale, depurata del prezzo dei beni energetici, utilizzata nei rinnovi contrattuali.
In Italia soffriamo anche la specializzazione della produzione in settori a basso valore aggiunto e a scarsa innovazione tecnologica, l’elevata frammentazione del tessuto produttivo con una grande presenza di piccole imprese improduttive, e un fisco sul lavoro troppo pesante.
Rinnovi: 5,7 milioni in attesa
A giugno 2025 quelli in attesa di rinnovo erano 31, riguardanti 5,7 milioni di lavoratori, a fronte di 44 contratti in vigore, per circa 7,4 milioni di dipendenti. Oltre al settore privato, c’è da considerare il pubblico impiego, per cui il governo ha una responsabilità diretta.
Naturalmente più i ritardi si accumulano, più i lavoratori perdono potere di acquisto. “Quando i salari crescono meno dell’inflazione, si innesca la rincorsa salariale, un meccanismo che non riguarda solo l’anno in cui si verifica la perdita di potere d’acquisto, ma genera effetti permanenti – afferma Francesco Sinopoli, presidente della Fondazione Di Vittorio -: gli incrementi futuri tendono a inseguire la crescita dei prezzi senza riuscire colmare il divario accumulato”.
Recuperare l’inflazione
Nel periodo gennaio-giugno 2025, secondo i dati forniti dall’Istat, la retribuzione oraria media è cresciuta del 3,5 per cento, con un tendenziale a fine anno del 3,1 per cento, grazie al rinnovo di una serie di contratti. Per questo, secondo gli studiosi, rinnovare nei tempi per recuperare l’inflazione è essenziale.
“La contrattazione collettiva deve essere messa nelle condizioni di stare al passo con l’inflazione e deve essere rafforzata con interventi – prosegue Sinopoli -, a partire dalla piena attuazione all’articolo 39 della Costituzione in tutti i settori, relativamente alla misurazione della rappresentatività e all’efficacia per tutti dei contratti collettivi, funzionale a contrastare il fenomeno dei contratti pirata”.
Un problema di produttività
Anche la produttività negli ultimi trent’anni ha registrato una crescita debole in Italia, specie se confrontata con le altre economie europee. Questa dinamica è collegata alla struttura produttiva nazionale, ancora concentrata in settori tradizionali e caratterizzata da una limitata propensione agli investimenti e da un ritardo nell’adozione di tecnologie avanzate, e caratterizzata da imprese piccole e piccolissime.
Le crisi economico-finanziarie e la pandemia hanno aggravato una condizione che però già esisteva. E nonostante il recente incremento degli investimenti sostenuto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, l’Italia continua a mostrare difficoltà strutturali.
In definitiva, le dinamiche salariali italiane degli ultimi trent’anni riflettono l’interazione tra una crescita economica debole, la stagnazione della produttività, la deregolamentazione del mercato del lavoro, cicli di crisi, tutti fattori che hanno determinato effetti negativi sulla domanda interna, mentre la precarietà ha contribuito a indebolire la dinamica retributiva. Oggi si è poveri anche lavorando, e lavorare non è più sinonimo di benessere.
La vittoria del capitale
Se poi si analizzano i bilanci di 1.905 società industriali e terziarie di grande e media dimensione, si scopre che nel triennio 2022-2024 hanno distribuito agli azionisti 90 miliardi di euro di dividendi, mentre i salari perdevano potere d’acquisto (fonte Mediobanca). In quelle aziende la produttività è aumentata del 35 per cento mentre il costo del lavoro del 16,3 per cento; nelle imprese a partecipazione pubblica la produttività cresceva addirittura del 69,1, mentre il costo del lavoro solo del 13,5.
Anche dove sarebbe stato possibile e auspicabile restituire potere d’acquisto ai lavoratori (oltre a fare investimenti), gli utili sono stati quindi impiegati per arricchire gli azionisti.
“È la vittoria del capitale sul lavoro – spiega Nicola Cicala, economista e ricercatore della Fondazione Di Vittorio –. Anche le grandi aziende a partecipazione pubblica, con livelli di produttività enormi e grandi profitti, che avrebbero potuto pagare di più i dipendenti, fare più sicurezza e più formazione, reinvestire, l’80 per cento degli utili se lo sono ripreso sotto forma di dividendi, se lo sono messo in tasca. Si può dire che in questo caso lo Stato ha fatto cassa sulle spalle dei lavoratori”.
Lo sciopero del 12 dicembre
“Stiamo vivendo una vera e propria emergenza salariale e lo studio della Fondazione Di Vittorio lo conferma – dichiara Maurizio Landini, segretario generale della Cgil -. Aumentare i salari e le pensioni, tra le questioni centrali dello sciopero generale del 12 dicembre, non è solo un elemento di tutela dei lavoratori e del potere d’acquisto ma anche una scelta di politica economica per far crescere il nostro Paese. Oggi bisogna andare verso un sostegno legislativo al salario minimo e alla contrattazione, con una legge sulla rappresentanza che affronti sia il tema della validità dei contratti nazionali che la cancellazione degli accordi pirata”.
“Abbiamo bisogno anche di una riforma fiscale per introdurre elementi di progressività – conclude il leader sindacale -. Salari e pensioni sono gli unici redditi che vengono tassati progressivamente, mentre tutto il resto non lo è. Le nostre proposte di riforma consentono di trovare risorse per gli investimenti e le politiche industriali. Dobbiamo tornare a occuparci dei problemi delle persone e mettere al centro il lavoro, perché chi lavora deve poter vivere con dignità, cosa che oggi spesso non accade. Lo sciopero del 12 dicembre non è semplicemente la protesta contro una legge di bilancio sbagliata ma un modo per recuperare la partecipazione democratica”.























