Il mondo del lavoro made in Usa scende in campo al fianco di Barack Obama nella sua corsa al secondo mandato. Ma l’entusiasmo del 2008 è alle spalle, perché la politica del lavoro dei Democratici ha mostrato alti e bassi. Quello che spinge davvero sindacati e lavoratori ad appoggiare il presidente Democratico è, però, il terribile scenario che si prospetterebbe se i suoi avversari vincessero: quel Mitt Romney e quel partito Repubblicano che minacciano di portare alla Casa Bianca la politica antisindacale più estrema dai tempi di Ronald Reagan.

Secondo il sito Equal Times (vicino al mondo del lavoro), “Barack Obama sarà rieletto presidente” e “probabilmente con un margine relativamente ampio”. Obama, scrive Jonathan Tasini, è in vantaggio schiacciante su Romney “tra gli elettori latinos, assicurandosi circa due terzi del voto latinoamericano”. Un margine “cruciale” in Stati combattuti “come Colorado, Nevada, Arizona, Nuovo Messico e Florida”. In prospettiva, per i Repubblicani, è “un incubo a lungo termine che potrebbe durare per la prossima generazione o due” e portare anche a una clamorosa sconfitta nella roccaforte del Texas. Il partito Repubblicano deve quindi confrontarsi col rischio della “irrilevanza”, in un Paese in cui “già dalle prossime elezioni” “i bianchi non costituiranno più la maggioranza degli elettori che si recano alle urne”.

Inoltre – prosegue Tasini - “Romney non è Ronald Reagan” (non ha il suo appeal) e “troppi Repubblicani spaventano” gli elettori. “Dal punto di vista di un elettore indipendente, i Democratici mostrano un sacco di mele marce all'interno del partito - dalla passione per le corporations agli ideologi del libero mercato, per non parlare di membri non molto intelligenti. In linea di principio, si può non essere d'accordo con le loro posizioni”, ma almeno – lascia intendere Tasini – non tradiscono quella “retorica manifestamente folle” di molti candidati Repubblicani.

Più in generale – prosegue l’analisi di Equal Times - "gli Stati Uniti sono un Paese di centro-sinistra. Capita che vi si eleggano governi di centro-destra, ma solo perché il voto in America non è semplice, non è incoraggiato ed è vittima di una macchina da soldi che sabota un dibattito pubblico sincero e razionale". “La maggior parte di queste persone sono tipici elettori Democratici che non partecipano al voto a causa delle barriere (se sei povero, hai due lavori, devi gestire una famiglia senza babysitter, il voto può essere un lusso)”.

Quanto agli scenari per il mondo del lavoro, l’analisi è più dubitativa. Alla domanda: “Conterà davvero per i lavoratori che Obama porti a casa un secondo mandato?”, Equal Times risponde: “Sì e no”. Di certo “l’agenda del partito Repubblicano è chiara: vuole annichilire il movimento del lavoro negli Stati Uniti”, e chiunque Obama dovesse nominare alla guida del Comitato per le relazioni industriali (il National Labor Relations Board - NLRB) “sarebbe infinitamente più vicino ai lavoratori rispetto a un nominato da Romney”.

“Ma c'è una grave minaccia di fronte ai lavoratori”, ed è costituita secondo Tasini “dal cosiddetto 'grande patto' sulla riduzione del disavanzo che il presidente Obama ha cercato di stringere con i Repubblicani”. Un grande patto che si sta negoziando a porte chiuse e comporterebbe il taglio del welfare e dell’assistenza sanitaria in cambio dell’introduzione di una tassazione più severa sui grandi patrimoni.

LUCI E OMBRE
Come ricostruisce un articolo di The Nation, firmato da Josh Eidelson, i sindacati appoggiano Obama più per il timore di essere indeboliti da un’amministrazione Repubblicana, che per un genuino entusiasmo per le politiche del lavoro dei Democratici. Queste ultime, secondo la ricostruzione di The Nation, sono assolutamente ambivalenti (mixed).

“Nel 2008, i sindacati investirono tempo e denaro senza precedenti per eleggere Obama. Quattro anni dopo, i risultati sono contrastanti”. Obama – secondo Eidelson - ha fatto approvare riforme del settore finanziario e della sanità a favore del lavoro, ma ha attaccato solo a parole la legislazione anti-sindacale in vigore negli Usa. Ha nominato membri al NLRB che hanno “semplificato l’organizzazione sindacale dei dipendenti delle compagnie aeree e ferroviarie”, ma poi “ha firmato una legge che ha reso più difficile quella stessa organizzazione”. I suoi finanziamenti pubblici hanno difeso il posto di lavoro degli insegnanti, ma i nuovi meccanismi di valutazione della produttività ne hanno facilitato il licenziamento in molti Stati. L’amministrazione Obama ha proposto nuove regole per vietare il lavoro minorile nel settore agricolo e per tutelare la salute e sicurezza, ma poi il suo stesso Dipartimento del Lavoro le ha “affondate”.

D’altro canto – prosegue l’analisi di The Nation – se la politica di Obama in materia di diritti del lavoro è stata ambigua, “lo stesso non si può dire del GOP”. Negli Stati in cui è al governo, il Grand Old Party, ossia i Repubblicani, ha licenziato “una moltitudine di dipendenti pubblici e ha aggredito frontalmente la contrattazione collettiva”. Al Congresso i Repubblicani “hanno promosso leggi per rendere più difficile per i lavoratori organizzarsi, e più facile per le aziende sabotare i sindacati tramite la delocalizzazione degli impianti”.

The Nation ha chiesto a Richard Trumka, presidente dell’AFL-CIO (il principale sindacato americano), se la delusione per la politica di Obama potrebbe incidere sul voto di lavoratori e iscritti. E la risposta è stata: “Assolutamente no. (…) il presidente Obama è sempre stato lì per aiutarci”.

La mobilitazione sindacale per il voto del 6 novembre è dunque, se non assicurata, di certo promessa: 128mila volontari busseranno a 5 milioni di porte e consegneranno oltre due milioni di volantini pro Obama. Ma è una battaglia di retroguardia e difesa, spiega il sindacalista Larry Hanley a The Nation: “Non vediamo queste elezioni come un evento che, se vinciamo, aprirà una nuova ondata di legislazione a favore del mondo del lavoro. Ma, se vinceranno i Repubblicani, semplicemente non ci sarà più un movimento dei lavoratori”.


L’ENDORSEMENT DEL FINANCIAL TIMES
Sull’altra sponda dell’economia, il Financial Times assicura il proprio endorsement a Obama, giudicando il voto in suo favore come "la scommessa più saggia" per un paese, gli Stati Uniti, "colpiti dalla crisi". "Nessuno dei due candidati ha fornito risposte convincenti su come rispondere alle sfide più importanti", tanto in campo economico che in politica estera, giudica il quotidiano britannico. Ma quello che "è chiaro, è che i due candidati hanno una differente filosofia di governo". Obama è un interventista, specie in politica economica. Mentre "la versatilità di Romney si basa più sulle indagini di mercato che su una reale filosofia politica. "Per queste ragioni, conclude il Ft che suggerisce un facile paragone con la reazione all'uragano Sandy, "Obama ha dimostrato che un governo propositivo può essere parte della soluzione, piuttosto che il problema. Dopo quattro anni di crisi finanziaria, con una diseguaglianza estrema che minaccia il sogno americano, resta il bisogno urgente di una guida intelligente e riformista. Obama, con la sua presidenza caratterizzata dalla crisi economica, sembra la scelta migliore".