Il semestre filtro nasce come rivoluzione gentile, muore come selezione truccata. Tre prove, una soglia rigida, mesi di studio senza rete. Chi cade resta fuori, chi resiste passa. Altro che superamento dei test. È un numero chiuso diluito nel tempo, con l’aggravante della fatica prolungata e dell’illusione venduta come diritto.

I risultati inchiodano il progetto. Troppi esclusi, troppi bocciati, posti vuoti all’orizzonte. A quel punto il Ministero scopre l’emergenza e inventa la scorciatoia. Tutti in graduatoria, anche senza il punteggio minimo, purché disposti a un corso riparatore e a un esamino di recupero. Il merito diventa opzionale, la soglia evapora.

Qui sta il misfatto. Le regole saltano a partita iniziata. Chi ha superato tutto si ritrova equiparato a chi aveva fallito. Chi è stato escluso ieri vede rientrare oggi altri per decreto. Si crea una giungla di trattamenti diversi, una fabbrica di ricorsi, un’ingiustizia seriale mascherata da inclusione.

La ministra Bernini firma e sorride. Prima rigidità ideologica, poi flessibilità disperata. L’università come laboratorio di propaganda, gli studenti come cavie. Nessun piano su docenti, aule, tutoraggi. Solo l’urgenza di coprire i buchi e salvare la narrazione del successo annunciato.

Questa non è riforma, è dilettantismo di potere. Medicina merita serietà, lo studio merita rispetto. La ministra deve spiegare come si possa cambiare il criterio di accesso dopo aver prodotto il danno. Perché qui il problema resta semplice. Il caos ha un nome e siede al Ministero.