Come si è arrivati alla situazione odierna, in cui una persona che lavora per una grande azienda può esser retribuita, senza contratto scritto, con un foglietto di carta del valore di 7,5 euro l’ora? Non era l’Italia, secondo una retorica internazionale (a volte supportata da dati e analisi errate), il Paese che aveva le maggiori tutele per gli occupati? Anche se in molti hanno fatto finta di non accorgersene, la decostruzione delle tutele sul lavoro viene da lontano e in qualche modo è stato un modo per sfuggire alle maglie dello Statuto dei lavoratori del 1970, che fissava un moderno corpo di regole per il lavoro dipendente a tempo indeterminato.

La prima tappa del percorso di flessibilizzazione del lavoro è rappresentata dalla legge n. 863 del 1984, che istituiva il contratto di inserimento formativo per i giovani (e ciò anche se i giovani che entravano in azienda erano spesso ben più formati dei lori padri) e dava la possibilità di stipulare contratti di solidarietà finalizzati alla riduzione concordata dell’orario di lavoro (e del salario) in caso di crisi aziendale: una discutibile applicazione della regola del “lavorare meno per lavorare tutti”.

Altro importante passo verso la flessibilità è la legge n. 223/91, che ridusse le restrizioni ai licenziamenti collettivi dovuti a crisi o ristrutturazioni industriali. Norma rinforzata poi dal protocollo di intesa del luglio 1993, che introduceva l’idea che la flessibilità potesse contribuire a stimolare l’occupazione, ma che, come notava Gallino, trattava il lavoro, per vari aspetti, come fosse una merce qualsiasi. Venne poi, nel 1995, la riforma Dini sulle pensioni, che introducendo un trattamento previdenziale minimo per i lavoratori parasubordinati, sdoganò definitivamente la figura del collaboratore: un giovane, per lo più di sesso femminile, che lavorava in media per sette mesi l’anno con una retribuzione di 700 euro lordi.  Nel 2013 superarono il milione di unità, di cui oltre 100 mila nella pubblica amministrazione.

Ma quelli che sono unanimemente considerati i cardini del lavoro flessibile vengono sanciti nel 1997, quando viene approvata la legge n. 196 – il cosiddetto “pacchetto Treu” – che introduce la novità del lavoro interinale, allargando ulteriormente le possibilità di impiego a termine, e nel 2003 con l’attuazione della legge 30. Una norma affetta da una sorta di bulimia delle tipologie contrattuali precarie, svariate decine. Il lavoro accessorio, retribuito tramite voucher, nasce proprio in quella norma.

Durante gli ultimi 25 anni, come visto, governi, Parlamenti e addetti ai lavori a vario titolo si sono molto impegnati allo scopo di superare le supposte (mai realmente provate) rigidità del mercato italiano. Secondo un’interpretazione ampiamente condivisa nei talk show (ma meno accreditata tra chi svolge ricerche socio-economiche), tutelando i lavoratori dai licenziamenti si ostacolava l’aumento occupazionale, specialmente a scapito dei giovani. Argomentazione almeno paradossale: non si capisce perché cacciando via un lavoratore aumentino le chance occupazionali di due disoccupati. Ma, dato che le idee strane sono spesso quelle più praticate, è successo che ben due esecutivi (Monti prima, Renzi poi) si siano accaniti contro l’unica legge che tutelava i lavoratori dai licenziamenti senza giusta causa.

Purtroppo, come dimostrano gli eventi, tutto l’impegno profuso non sembra aver colpito nel segno: la disoccupazione giovanile, che ai tempi del “pacchetto Treu” era vicina al 30%, oggi oscilla attorno al 40% e anche il tasso di attività si è ridotto. Si potrebbe obiettare che in Italia ancora paghiamo il prezzo occupazionale della Great Recession iniziata nel 2007-2008. Ma un mercato del lavoro flessibile non avrebbe dovuto in qualche modo aiutarci proprio in questa evenienza?

Il problema è che la flessibilità, lungi dal costituire un’occasione occupazionale concreta per le persone espulse dal ciclo produttivo (donne con figli in tenera età, disoccupati involontari ecc.), si è trasformata in precarietà stabile: contratti sempre più brevi e ripetuti, orari di lavoro imprevedibili, retribuzioni fissate unilateralmente dai datori di lavoro, che sfuggono a qualsiasi tentativo di regolazione, la possibilità di evitare qualsiasi procedura di licenziamento, essendo sufficiente all’occorrenza non rinnovare i contratti. Così la precarietà ha modificato profondamente le aspettative nei confronti del lavoro, al quale i giovani attribuiscono ormai una valenza di mera sopravvivenza e non più di progettualità futura; anche il post-lavoro è visto con delusione: le pensioni dei precari di oggi domani saranno miserevoli, in quanto il sistema contributivo – entrato in sofferenza anche a causa della precarietà: è un cane che si morde la coda – non può garantire una vecchiaia economicamente serena a chi non ha versamenti pensionistici decenti e continui nel tempo.

Che qualcosa non andasse nel modello di flessibilità italiano fu segnalato sin dal 2006 anche dall’Istat: la precarietà genera un senso di insicurezza sociale dovuto sia alla temporaneità contrattuale, sia alla mancanza di un reddito continuativo e adeguato che consenta di pianificare la vita nel medio-lungo periodo. Per dirla con Richard Sennett, l’uomo flessibile diventa precario quando l’instabilità del lavoro diviene permanente, lo intrappola in una sequenza di lavori temporanei e ne condiziona negativamente identità sociale e professionale, relazioni personali, situazione familiare: in una parola, ne peggiora l’esistenza intera.

Era ben chiaro anche nel febbraio 2003, quando comparve sulla scena la legge 30, che invece il mercato del lavoro (almeno per giovani, laureati e donne alla ricerca di un primo impiego) fosse precario e non flessibile. La legge in questione costruì una sorta di “supermarket del lavoro”, con oltre 40 tipologie contrattuali, alcune delle quali sono rimaste inutilizzate tra imprese: rari sono, solo per fare un esempio, i casi di utilizzo del lavoro ripartito, mentre quello intermittente ha avuto fortuna brevissima, e solo a scopo elusivo.

Anche il lavoro accessorio all’inizio è rimasto alquanto in sordina. Non che non fosse conveniente (con 10 euro di spesa l’azienda pagava, tutto incluso, un’ora di lavoro), ma era limitato a casi ben specifici.  Il decreto 276/2003 lo dedicava a prestazioni occasionali rese da soggetti non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne, e per piccole attività domestiche straordinarie, dal baby-sitting al giardinaggio, dalle ripetizione per studenti sino alla collaborazione con enti pubblici e di volontariato per lo svolgimento di lavori di emergenza sociale e solidarietà. Lavori, comunque, che nell’arco di un anno non potevano superare le 30 giornate lavorative e i 3 mila euro di retribuzione. Non è un caso che lo strumento intendeva far uscire dal “nero” le micro attività svolte da pensionati, disoccupati o immigrati.

Per dirla con l’attuale assessora al Lavoro della Regione Lazio Lucia Valente, “il lavoro accessorio, nella sua originaria versione, si colloca al di fuori del ciclo produttivo dell’impresa”, in quanto il committente non è un imprenditore e la prestazione si svolge in aree extra-economiche, come famiglie ed enti senza fini di lucro. Ma la situazione cambia in fretta: già nel 2005 i voucher vengono estesi all’impresa familiare e ad alcune attività agricole, mentre il limite si innalza a 5 mila euro (10 mila per le imprese) e scompare il limite dei 30 giorni di lavoro.

Con le modifiche legislative del 2008 e 2009 (accompagnate da una copiosa produzione di circolari dell’Inps), il lavoro accessorio viene di fatto liberalizzato, viene meno la tipologia dei soggetti che potevano svolgere la prestazione lavorativa e si allarga il novero delle imprese committenti. Il legislatore, evidentemente puntando molto sullo strumento, nel 2012-2013 (riforma Fornero) estende i buoni lavoro a tutti i settori, incluse le pubbliche amministrazioni locali, e li rende fruibili anche per attività che non hanno natura meramente occasionale.

Da ultimo, arriva il Jobs Act, che (decreto 81/2015) innalza il limite massimo di compenso percepibile a 7 mila euro netti all’anno (9.333 lordi) e ne liberalizza completamente l’impiego, escludendo solo i lavori legati ad appalti.  Non stupisce dunque che, visti questi importanti “assist” legislativi, il lavoro accessorio in pochi anni sia letteralmente esploso, passando dai 535 mila buoni emessi nel 2008 agli oltre 134 milioni del 2016. Trend che si è rallentato solo quando, molto recentemente, il governo ha obbligato le aziende utilizzatrici a comunicare preventivamente l’impiego di un voucher.

Il lavoro accessorio, che doveva rappresentare, nella narrazione del governo Berlusconi che li ha introdotti, una via per far uscire dal “nero” una fascia di lavoretti svolti da soggetti deboli per famiglie e associazioni di volontariato, è diventato oggi uno dei confini più esterni della precarizzazione del mercato del lavoro, un “erede naturale” delle soppresse collaborazioni a progetto. Il presidente dell’Inps Tito Boeri ha di recente ammesso che, come strumento di lotta al sommerso, il lavoro accessorio non ha funzionato e probabilmente lo ha anche facilitato: “Anche qualora tutti i voucher corrispondessero a ore di lavoro sottratte al nero, si tratterebbe di una goccia nel mare dell’irregolarità (…). È anche possibile, anzi fortemente probabile, che i voucher abbiano loro stessi coperto condizioni di lavoro nero”.

Il voucher si presta a nascondere il sommerso in due modi: usando un buono per regolarizzare un’ora di lavoro, pagando poi in nero le restanti ore della giornata; usandolo per regolarizzare solo alcune giornate lavorative, probabilmente quelle più “a rischio” di essere scoperte. Insomma, ci troviamo davanti a una grave distorsione di una legge che, nata con illusorie aspettative, è divenuta un ostacolo al ritorno a un mercato del lavoro corretto, che offra agli imprenditori parità di condizioni (mentre i voucher facilitano il dumping sociale e la concorrenza sleale) e ai lavoratori le garanzie minime di una retribuzione equa e legale.

Il legislatore italiano nel campo del lavoro ha spesso perso l’occasione di “far bene” e, nel tentativo di introdurre innovazioni spesso strampalate e ideologicamente orientate, ha creato un Far West della precarietà. Per questo lavoro accessorio e voucher è preferibile che affondino rapidamente nelle maglie della storia.

Patrizio Di Nicola, sociologo del lavoro, è docente di Sistemi organizzativi complessi alla Sapienza Università di Roma