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Menomale che l’hanno salvata. Perché il Parlamento europeo, in un raro lampo di lucidità, ha ricordato che la democrazia serve a proteggere le persone, non a umiliarle. Il voto sull’immunità di Ilaria Salis ha diviso i partiti, acceso talk show, rovinato pranzi della domenica. Ma sotto il chiasso resta una verità semplice: o si sta con la giustizia garantita o si sta con l’Ungheria di Orban. Tutto il resto è chiacchiericcio.
Eppure, anche di fronte all’evidenza, il riflesso condizionato della politica italiana non ha mancato l’appuntamento con la meschinità. I “garantisti” di ieri hanno invocato la gogna, i “giustizialisti” di un tempo hanno riscoperto la dignità della persona, e tutti, come sempre, hanno trasformato una questione di diritto in un torneo di tiro al bersaglio. Il bersaglio, stavolta, era una donna colpevole solo di non piacere alla propaganda.
Ilaria Salis non è una santa, e nessuno lo ha mai detto. Ma vederla trascinata in catene nei tribunali ungheresi è stato un promemoria di ciò che l’Europa non deve mai diventare: un continente che scambia la forza per la legge e l’odio per giustizia. Il voto che l’ha protetta non ha premiato un’ideologia, ma un principio. E chi oggi se ne scandalizza dimostra solo quanto sia comodo indignarsi a senso unico.
Il garantismo, in fondo, è come la libertà: vale qualcosa solo se si estende anche a chi ci irrita. È facile difendere chi ci somiglia, molto meno chi ci scomoda. Ecco perché quel voto, così traballante nei numeri e solido nei valori, è una piccola, grande vittoria. Non di Salis soltanto, ma dell’idea stessa di civiltà europea.
Chi oggi ironizza sul suo nome dimentica che domani potremmo essere noi, chiusi in una cella straniera, in attesa di un voto che decida se abbiamo ancora diritto a essere trattati da esseri umani. Menomale che qualcuno, almeno per una volta, ha scelto di stare dalla parte giusta. Anche solo per sbaglio.