Mille giorni di governo Meloni e il Paese è diventato uno spot a ciclo continuo. Un potere che non governa ma si autopromuove, che non risolve ma racconta. Si è andati avanti per slogan, spauracchi e finzioni: migranti, devianze, nemici interni. La parola “normalità” è stata usata come copertura mentre si svuotavano i luoghi della democrazia e si riempivano di figuranti. Chi ha problemi è colpevole. Chi fa domande è nemico. Chi non applaude va rieducato.

Il centro di rimpatrio in Albania è il simbolo perfetto: costosissimo, vuoto, inutile. Ma scenografico. Non serve a mandare a casa nessuno, ma a far vedere che si è “duri”. Intanto le tasse salgono, i salari scendono e la povertà diventa una colpa da scontare in silenzio. L’importante è tenere il copione in mano e non alzare lo sguardo. I numeri non devono spiegare, devono impressionare.

Anche fare la spesa è diventato un atto ideologico. Se i prezzi aumentano, è colpa tua. I dati dicono tutto e il contrario, ma la linea è chiara: non lamentarti, stringi la cinghia, sorridi. Gli scaffali si svuotano, ma nei discorsi ufficiali “la situazione è sotto controllo”. Intanto si cucina con l’acqua e si parla di stabilità.

Il lavoro, evocato con tono sacrale, è in realtà trattato come orpello. Il milione di posti di lavoro rivendicato dalla premier è cifra mitologica, buona per le slide e i titoli. Il lavoratore è decorativo, utile solo come bersaglio narrativo. I sindacati sono visti come intralcio, tollerati finché restano ai margini e non disturbano il cerimoniale del potere. Nessuna riforma, solo manutenzione della disuguaglianza.

E ora il grande finale. Il pieghevole dei mille giorni, in perfetto stile supermercato. Offertone su promesse scadute, promo sulla retorica vuota. Mille giorni per anestetizzare il conflitto e sostituirlo con un varietà di governo. Per trasformare il cittadino in pubblico docile. Per svuotare la Repubblica lasciandone intatta la facciata.