Ventiquattro anni fa, Genova fu l’epicentro di un’insurrezione morale contro il capitalismo globale. Una moltitudine irriducibile invase le strade per sognare un mondo diverso, per smascherare l’arroganza dei potenti. Oggi, mentre quel ricordo viene sterilizzato e rimosso dalla memoria ufficiale, il governo Meloni rilancia un “decreto sicurezza” che trasuda vendetta, disciplina e paura. Un’operazione dall’inconfondibile odore stantio di repressione già vista.

Il provvedimento criminalizza il dissenso, imbavaglia la protesta, concede pieni poteri alla forza pubblica e introduce pene aberranti per chi occupa, manifesta, interpella l’ordine. In sostanza, decreta la chiusura dello spazio democratico, proprio come accadde nel luglio 2001, quando manganelli, torture e menzogne di Stato si abbatterono su chi osava immaginare alternative.

Come allora, la parola “democrazia” si svuota quando l’opposizione sociale viene trattata come una minaccia. Come allora, la violenza non proviene dalla piazza, ma dalle istituzioni. E come allora, si costruisce la farsa moralistica dei “manifestanti buoni” contrapposti ai “cattivi”, per isolare la rabbia e depotenziare la collettività.

Genova fu un banco di prova. Le torture della Diaz e di Bolzaneto non furono deviazioni, ma parte di una dottrina. Oggi quella logica si rinnova: schedature, daspo preventivi, galera per chi turba il decoro pubblico o l’ordine del capitale. Un ordine che tutela i privilegiati, opprime i lavoratori, mercifica i beni comuni e trasforma il disagio in oggetto di controllo.

Il disegno è chiaro. Questa destra muscolare – spavalda con i fragili, prona con i potenti – vuole estirpare il conflitto, addomesticare la politica, sterilizzare la partecipazione. Le piazze fanno paura, il pensiero critico è intollerabile, la disobbedienza va estirpata con il codice penale.

Per questo ricordare Genova non è celebrazione ma resistenza. Non è un esercizio commemorativo, ma una dichiarazione d’intenti. È affermare che la verità sopravvive a silenzi, archiviazioni e falsificazioni. È riconoscere che lo spirito di allora – cosmopolita, radicale, generoso – resta un incubo per chi governa col manganello e la menzogna.

Ed è un avvertimento: chi oggi applaude il pugno duro, domani scoprirà di aver firmato la propria condanna al silenzio. La repressione non ha confini: parte dai “nemici interni”, ma finisce per travolgere chiunque osi deviare dalla norma imposta.

Nel nome di Carlo Giuliani e delle migliaia che sfidarono il G8, ricordiamo che la lotta non è archiviabile. Un altro mondo non è solo possibile: è indispensabile. E nessuna legge potrà mai estinguere il fuoco della dignità, della rivolta sociale, della solidarietà organizzata.