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Al ministero della Cultura non sanno più dove mettere le mani. Siamo fuori tempo massimo per l’assegnazione dei 175 incarichi dirigenziali, ma la macchina amministrativa del Mic è completamente bloccata: le nomine non sono arrivate, i dirigenti sono sospesi in un limbo professionale e gli uffici restano senza guida.
Valeria Giunta, coordinatrice nazionale della Fp Cgil Mic, come siamo arrivati così allo sbando?
Le nomine bloccate sono solo la punta dell’iceberg. A monte c’è la riorganizzazione del complesso sistema del Mic, uno dei problemi lasciato in eredità dall’ex ministro Sangiuliano. Alcuni uffici sono stati soppressi o accorpati (vedi i segretariati, le cui competenze sono state avocate nuovamente alle soprintendenze), ma i ruoli dirigenziali sono vacanti. La riforma esiste sulla carta, però per darle concretezza è necessario procedere alle nomine. Nonostante le procedure concorsuali siano state espletate, diverse posizioni sono rimaste scoperte. Addirittura alcuni partecipanti, pur avendo superato le prime prove, non sono stati ammessi alle successive.
E quindi, come si procede in questi casi?
La norma prevede che le posizioni non assegnate tramite concorso possano essere occupate tramite chiamata diretta e funzionale a specifiche esigenze. Altrimenti, se la macchina amministrativa si blocca, le ricadute sul personale sono enormi: se un ufficio viene chiuso, i dipendenti restano senza una sede dove svolgere il proprio lavoro. Viceversa, magari l’ufficio recepisce funzioni e competenze di altri, ma chi ci lavora non ha la formazione adeguata. Da un lato, il ministero non si è mosso nei tempi previsti dalle norme e dalle disposizioni delle Corte dei Conti per colmare le lacune e individuare i dirigenti. Dall’altro, in un secondo momento ha iniziato a fare le prime nomine politiche, dando vita a casi singolari. Si pensi alla nomina del nuovo responsabile delle relazioni sindacali: è un conflitto di interessi, non può essere un dirigente politico a ricoprire quel ruolo. Per di più un funzionario che era già stato bloccato dalla Corte dei Conti nella sua tentata escalation a ruoli apicali, come quello di direttore generale degli Archivi.
Facciamo un passo indietro: possibile che in un Paese pieno di professionisti dei beni culturali super qualificati – e spesso precari – non si arrivi a coprire tramite concorso tutte le posizioni aperte? C’è qualcosa che non torna.
Evidentemente no. O forse c’è un tema di posizionamento politico, nonché di eccessiva discrezionalità delle nomine, che non tutela sufficientemente i professionisti, consentendo di affidare ruoli apicali a dirigenti della pubblica amministrazione provenienti da tutt’altri settori. E nel frattempo, l’archivista viene spedito in un qualunque museo, anche della più remota periferia.
Questo però è un antico male che si perpetua: se metto un responsabile dei trasporti a dirigere il sistema museale, non saprà dove mettere le mani.
Noi abbiamo in ruoli di massima responsabilità dirigenti che, nella migliore delle ipotesi, sono funzionari amministrativi prestati a svolgere altro, che potrebbe anche non essere nelle loro corde. E poi ci sono i dirigenti provenienti proprio da altri settori, che finiscono per destinare il nostro patrimonio culturale all’organizzazione di matrimoni e feste private, come è successo all’Archivio di Stato di Napoli.
Il ministro Giuli ha ereditato una situazione disastrosa dal suo predecessore, ma è passato quasi un anno ormai. Qual è la responsabilità più grande dell’attuale titolare del dicastero?
Alessandro Giuli è ministro ormai da un anno, non si può più continuare ad addossare la colpa a qualcun altro. Ha convocato le parti sociali a ottobre del 2024 e poi non si è presentato, per poi riconvocarci il 12 dicembre. Ma dopo quella data non abbiamo avuto più alcun tipo di confronto con lui, nonostante avesse garantito che saremmo stati costantemente coinvolti e informati. Da lui non abbiamo capito neppure cosa pensi davvero della riforma Sangiuliano. Credo che il suo più grande demerito sia quello di aver svolto finora un ruolo più simbolico che concreto, di non aver avuto né la capacità, né l'autonomia di apportare il benché minimo cambiamento, pur di fronte a una situazione di caos totale, nella quale – ribadisco – i dipendenti non sanno neanche se da un giorno all’altro verranno trasferiti in un’altra città.
La mancata attuazione della riforma e delle nomine tiene bloccati anche i fondi del Pnrr, circa 44 milioni destinati a specifici progetti culturali e di rigenerazione.
Alcuni fondi non sono stati sbloccati e altri – quelli che invece potrebbero essere operativi –non possono essere utilizzati. Nessuno può gestire dei fondi pubblici senza averne mandato. In alcuni uffici non ci sono dirigenti, ma solo funzionari con potere di delega e incarichi temporali indefiniti. Nelle quattro regioni meridionali (Campania, Puglia, Sicilia e Calabria) ci sono circa 300 lavoratori precari a 18 ore, assunti per l'esecuzione dei lavori Pnrr. I loro contratti sono a tempo determinato, part-time a 18 ore per la realizzazione di quei progetti. Hanno lavorato per 18 mesi, adesso prorogati per 12, non sappiamo nemmeno se saranno in grado di svolgere appieno i loro compiti, perché un lavoratore a 18 ore vuol dire che lavora tre giorni a settimana, senza una direzione e senza avere una pianificazione degli interventi.
Hai citato le regioni del Sud, qual è la fotografia che arriva dai beni culturali diffusi su tutto il territorio nazionale?
Il Mic è il ministero più diffuso territorialmente, perché in ogni piccola città ci sono una biblioteca o un archivio o un museo. Abbiamo recentemente tenuto un coordinamento nazionale, da cui viene fuori la grande insofferenza di lavoratrici e lavoratori. Innanzitutto per la carenza endemica di personale, che si aggira intorno al 50 per cento del fabbisogno totale. I dipendenti sono circa 14 mila, ne servirebbero 20 mila per mandare avanti tutta l’organizzazione Le risorse mancanti vengono sopperite con precari a Partita Iva. Parliamo di archeologi, storici dell'arte, restauratori, ovvero professionalità specifiche per questo ministero. Se un museo ha tre persone in organico, di cui una sta male, una sta in 104 e l’altra si prende le ferie, il museo non apre. Oppure quella che è in ferie viene chiamata per andare ad aprire. Sono storie vere. I concorsi sono su base nazionale, ma le persone partecipano senza sapere dove verranno spedite dopo, in base alla graduatoria. E molto spesso rinunciano perché il gioco non vale la candela, se ci si deve trasferire da Palermo a Venezia per uno stipendio di 1.300 euro. Poi c’è il tema della sicurezza: la scorsa estate presso la Reggia di Caserta un lavoratore ha avuto un malore per il caldo ed è morto.
Prima di Giuli e Sangiuliano, tuttavia, non è che le cose andassero meglio. Il ministero della Cultura sembra un’Idra che nessuno è stato in grado di dominare. Perché è così difficile?
Il punto è che il Mic è sempre stato considerato un ministero vetrina: inaugurare mostre, andare all’estero, tagliare nastri per avere e dare visibilità. Nessuna attenzione viene indirizzata alla gestione e alla valorizzazione delle risorse. Il nostro patrimonio culturale e le nostre professionalità vengono sfruttati a scopi di immagine, piuttosto che essere inseriti in un sistema di tutela e valore che funziona. Non si investe, i ministri passano e i problemi restano. Di quanti ministri della cultura ci ricordiamo il nome perché lo hanno dato a una riforma? Dei contenuti ce ne ricordiamo molto meno.