La povertà, in Italia, non è solo un fenomeno economico: è un destino. Lo conferma un recente studio dell’Università di Oxford pubblicato su Research in Social Stratification and Mobility, che analizza la trasmissione intergenerazionale della povertà in trenta Paesi europei. I risultati sono impietosi: chi nasce povero in Italia ha altissime probabilità di restarlo. Più che in Francia, Germania, Austria, ma anche più che in Polonia o Slovenia. Un’eccezione negativa nel panorama europeo.

Numeri che parlano chiaro

Nel nostro Paese il 21% della popolazione era, già nel 2019, a rischio di povertà o esclusione sociale. Ma il dato più allarmante riguarda la “rigidità” della povertà: chi proviene da una famiglia povera ha una probabilità di diventare povero da adulto superiore di 15 punti percentuali rispetto a chi è cresciuto in una famiglia non povera. Peggio di noi fanno solo Romania, Bulgaria, Serbia e Lituania. Mentre nei Paesi scandinavi – Svezia, Danimarca, ma anche la Svizzera – la povertà non si trasmette: l’origine sociale incide pochissimo, e in alcuni casi l’effetto è nullo o persino invertito.

I meccanismi della trasmissione

Ma come si misura una povertà che non lascia tracce nei documenti? Lo studio utilizza proxy indiretti: la deprivazione materiale (mancanza di libri scolastici, pasti adeguati, vacanze), la percezione di difficoltà economiche, il titolo di studio dei genitori, il tipo di occupazione o la disoccupazione. Quattro variabili che insieme fotografano il disagio vissuto nell’infanzia e lo mettono in relazione con la condizione economica attuale, misurata con i criteri ufficiali europei (reddito sotto il 60% del mediano, esclusione sociale, bassa intensità lavorativa).

Ma la povertà non si trasmette solo per eredità materiale. Si riproduce per meccanismi culturali, educativi, strutturali. Chi nasce povero spesso cresce in contesti scolastici più deboli, ha reti sociali fragili, meno strumenti per orientarsi nel mondo del lavoro. Un gap che si amplia a ogni tappa del percorso di vita.

Il ruolo chiave dell’istruzione

In Italia, il principale canale di trasmissione della povertà è l’istruzione. E i dati Istat lo confermano: se almeno un genitore è laureato, il 67% dei figli tra i 25 e i 34 anni raggiunge un titolo terziario. Ma questa quota scende al 40% se i genitori hanno solo un diploma e crolla al 13% se non si va oltre la terza media. Anche l’abbandono scolastico segue la stessa dinamica: solo il 2% dei figli lascia la scuola se almeno un genitore è laureato, mentre il tasso sale al 24% se i genitori hanno bassi livelli di istruzione.

Eppure, nemmeno la scuola basta. Lo studio mostra che l’ascensore sociale dell’istruzione, pur funzionando, non riesce sempre a portare tutti in alto. Il marchio della povertà originaria si fa sentire anche tra chi ha studiato, segno che la mobilità sociale è inceppata.

Un problema strutturale, non solo economico

La povertà italiana non è solo ampia: è rigida. E resta tale anche cambiando le definizioni statistiche, controllando per età o escludendo i migranti. Né la crescita economica né la spesa pubblica spiegano da sole le differenze tra Paesi. Contano la qualità delle politiche, l’efficacia del welfare, il funzionamento dei servizi pubblici.

Secondo i ricercatori, l’Italia è un Paese high static: elevata povertà nella generazione precedente, elevata povertà oggi. E con scarse possibilità di uscita. La povertà, da noi, è una trappola ereditaria. Non basta lavorare. Non basta studiare. Serve una strategia di lungo periodo, centrata sull’istruzione, sul rafforzamento del welfare, sulla redistribuzione delle opportunità.