In un tempo cupo, quello che viviamo, tempestato da guerre e governato da sovranismi sempre più simiglianti a nuove tecniche di dittatura, rileggere la storia del Novecento può forse aiutare a comprendere meglio il nostro presente. Ma leggerla in che modo? La domanda è la questione centrale che si pone il nuovo libro di Lorenzo Guadagnucci, giornalista e scrittore, dal titolo Un’altra memoria (Altraeconomia, pp. 234, euro 18), analisi atipica di quanto accaduto nel secolo scorso, e di come la memoria debba essere rivisitata in chiave diversa rispetto alle consuetudini “istituzionali”, troppo spesso divenute dei vuoti rituali buoni a riempire un calendario civile, privato però del suo vero e originario significato. Abbiamo intervistato l’autore.

Da dove parte l’idea di questo libro?
Nasce dal sentimento vissuto l’anno scorso, il 12 agosto 2024 a San’Anna di Stazzema, dove torno ogni anno per commemorare l’eccidio operato dai nazisti e dai collaborazionisti fascisti della Repubblica di Salò nei confronti della popolazione. Ecco, mentre ero lì ho sentito in maniera forte l’enorme contrasto fra l’occasione di partecipare a una ricorrenza di una vicenda storica di ottanta anni fa e l’enorme peso di quanto viviamo oggi, dalle stragi in corso a Gaza alla guerra in Ucraina, alle altre guerre del mondo. Ho sentito che il nostro approccio, il mio approccio a questi eventi, esige una critica della memoria, ormai troppo disconnessa dal presente, per certi versi non più credibile. Ho capito che è arrivato il momento di mettere in discussione il valore della memoria.

In che modo?
Mi sono interrogato su questo, e le risposte si orientano in più direzioni. C’è una memoria ufficiale, fatta appunto di ricorrenze, di punti fermi, al servizio di una memoria collettiva divenuta però statica, sterile, un punto d’appoggio che costituisce una riserva di valori che servono ormai soltanto a consolare, a dare a chi pratica questo tipo di memoria la certificazione di essere fedele a una storia, senza che questa fedeltà implichi niente nella partecipazione al presente, nella propria azione agli eventi di cui più o meno direttamente facciamo parte. Ma una memoria consolatoria e identitaria, senza una reale connessione con quanto accade ora, rischia di non servire più a nulla.

Lorenzo Guadagnucci

Un’affermazione che può suonare provocatoria…
Lo capisco. Ma affinché la memoria abbia un valore insito e sia motore per l’azione civile, il tentativo deve essere ripensare questa stessa memoria, per rigenerare un filone inaridito che, così come viene proposto, possiamo tranquillamente abbandonare. Dobbiamo invece rigenerarlo per aiutarci a capire il presente.

Operazione possibile?
Secondo me sì. La memoria del 12 agosto 1944, per tornare al nostro inizio, mi dice moltissimo, mi orienta in un punto chiave per comprendere il significato e la crudeltà delle stragi perpetrate nel corso del Novecento. Ma il presente è Gaza, la strage contro i civili che produce morti, morti che per la pubblica opinione non contano niente. Noi avremmo anche la possibilità di opporci civilmente, culturalmente, invece tutto avviene con la nostra complicità, la nostra assuefazione, malgrado siamo intrisi della memoria del primo tipo, che si dice parli al presente, mentre evidentemente non è più così.

Siamo assuefatti all’orrore…
Sì, assistiamo a un genocidio in diretta streaming. La memoria invece dovrebbe essere una risorsa che ci fa agire contro l’assuefazione. Così anche il 27 gennaio, la memoria della Shoah, diventa contraddittoria, un ribaltamento del suo più profondo significato. Questo per dire che abbiamo bisogno di un ripensamento radicale, che porti al rifiuto totale della guerra, mettendo al centro il valore della persona umana, di qualsiasi vita.

Come si può arrivare, o tornare, a questo?
Costruendo una memoria pubblica, allargando lo sguardo temporale. Credo ci sia una constatazione da fare: il mondo istituzionale, quello che abbiamo costruito sulle macerie della Seconda guerra mondiale è progressivamente crollato, si è autodistrutto. Ecco perché Gaza è un punto di svolta, perché abbiamo reso possibile tutto questo, lo abbiamo quasi legittimato, una responsabilità di tutto l’occidente che così facendo ha ripudiato i valori fondativi di tutte quelle istituzioni che erano nate nel secondo dopoguerra, come la Dichiarazione dei diritti umani del 1948 per prevenire altre guerre. Oggi stiamo demolendo tutto, il diritto internazionale, la Corte internazionale di giustizia, la Corte penale internazionale. Tutto ripudiato. Questo è il tema da affrontare.

In che modo?
Attraverso una memoria che va rigenerata altrove, da altri soggetti, con altri strumenti. Per questo nel libro parlo di memoria in movimento, per cercare di evitare questo abisso di guerra permanente, di distruzione delle democrazie: penso agli Usa ma anche all’Europa, dove si potrebbe ricostruire questa memoria facendo leva sui movimenti nati all’inizio di questo secolo, sulla loro esperienza di essere stati virtualmente, a un certo punto, la vera classe dirigente, coloro che denunciavano il tradimento dei sistemi di potere.

La copertina del libro

Tu sei stato partecipe e testimone del grande movimento di popolo riunitosi a Genova nei giorni del G8, giusto?

Sì. Durante il G8 del 2001 a Genova, il movimento dei movimenti venne rinnegato, respinto e contrastato proprio per la sua visione nuova, realistica, una proposta lungimirante rifiutata dai governi e messa fuori gioco. Oggi sappiamo che era quella la visione corretta, con proposte che forse ci avrebbero evitato gli abissi in cui siamo caduti, dal moltiplicarsi delle guerre al collasso climatico. Ecco, l’esperienza di quel movimento, che il New York Times scrisse essere in quel periodo “la seconda potenza mondiale dal punto di vista culturale e politico”, oggi dovrebbe far parte della nostra storia, di una nuova storia da costruire insieme.

In verità, a 25 anni di distanza, di tutto questo sembra si siano perse definitivamente le tracce…
Eppure secondo me questa “memoria in movimento” rimane l’unica possibilità che abbiamo per scongiurare una Terza guerra mondiale, che mi sembra non essere più “a pezzi”, ma ricomposta. La guerra non può essere la soluzione, perché è la fonte dei problemi, e la stessa questione ecologica non può essere affrontata con gli strumenti della guerra, ma con la diplomazia della pace, che necessita di spirito di cooperazione.

Come costruire allora la memoria di oggi, per un futuro diverso?
La memoria deve essere ricomposta partendo dalla fine della Seconda guerra mondiale, quando l’antifascismo è stato qualcosa di più creativo della retorica che oggi prevale, e che lo colloca dalla parte giusta della storia, perché questa è solo una parte delle memoria antifascista, e non è più quella maggiormente significativa.

Perché?
Perché la sua parte più importante risiede nel fatto che l’antifascismo è stato un movimento rivoluzionario; e oggi, per cambiare le cose in forma radicale, bisogna osare pensieri non pensabili, rivoluzionari nel loro tempo, dall’idea di Europa a una nuova dichiarazione dei diritti umani. L’insegnamento da trarre dell’antifascismo di allora e l’aver avuto il coraggio di formulare quei pensieri e quell’approccio, per osare a nostra volta pensieri radicali, rivoluzionari, senza farsi spaventare.

Non è così?
No. Oggi spesso ci troviamo di fronte a un antifascismo addomesticato, ridotto a punto d’appoggio, una stampella attraverso cui rimanere in piedi. Ma per cambiare le cose non dobbiamo accontentarci di questo, e pretendere molto di più.