La libertà di stampa in Italia è come un vino scaduto in bottiglia di cristallo: si spaccia per eccellenza, ma sa di muffa. Dopo l’attentato contro Sigfrido Ranucci, tutti a declamare la sacralità dell’informazione, la democrazia che respira attraverso le notizie. Eppure le stesse bocche che si riempiono di principi parlano solo ai cronisti di famiglia, meglio se con luci soffuse e copione concordato.

La nostra premier, per esempio, ama le interviste come un sovrano ama i ritratti: solo da pittori fidati. Non dialoga, concede udienze. Le domande sono carezze, le risposte sermoni. E mentre si vanta di essere “risalita di nove posizioni” nella classifica di Reporter senza frontiere, il giornalismo reale affonda tra querele temerarie, minacce e redazioni ridotte a call center della politica.

Ma il male è più profondo e più vigliacco. L’autonomia non muore solo con la censura, ma nelle scalette dei telegiornali. Muore quando il Tg apre con l’ennesima fiction giudiziaria su Garlasco e chiude con quaranta morti in mare, infilati tra il meteo e il grande traffico per il rientro. Muore quando i quotidiani si riducono a vetrine di convenienza per ministri e imprenditori.

In questo Paese si premia chi “denuncia con garbo”, si osanna il dissenso purché profumi di cerone televisivo. L’inchiesta dà fastidio solo quando sfiora i palazzi, allora diventa scandalo, calunnia, lesa maestà. Così il giornalismo smette di essere cane da guardia e si trasforma in barboncino da salotto, pettinato e riconoscente.

E allora sì, libertà di stampa. Ma con il guinzaglio corto, la ciotola piena e il padrone che stabilisce quando si può abbaiare. L’Italia applaude, cambia canale e si sente informata. D’altronde, da che mondo e mondo, la finzione è più rassicurante della realtà.