La sinistra italiana ha un debole irresistibile per i miracoli con l’accento straniero. Questa volta il taumaturgo si chiama Zohran Mamdani, nuovo sindaco di New York, afro-indiano, socialista dichiarato, elegante come un film di Spike Lee e idealista come un comizio di Bernie Sanders. Il suo successo ha fatto scattare nelle nostre file la solita crisi mistica: “Avete visto? Si può fare!”.

Ogni tre o quattro anni, quando la realtà qui suda e arranca, la sinistra cerca ossigeno su google maps. È successo con Tsipras, Lula, Mélenchon, Corbyn, Obama, persino con la Ocasio-Cortez, usata come santino di un progressismo “instagrammabile”. Ora tocca a lui: giovane, brillante, sfrontato quanto basta e capace di vincere in una metropoli che da noi si direbbe “impossibile”. Troppo bello per non sognare un po’.

C’è chi già immagina il Mamdani romano, pronto a liberare la capitale dal grigiore gestionale e dal trasformismo di palazzo. Ma l’Urbe, diciamolo, non è New York: qui i taxi sono più lenti, le idee ancora di più. E ogni tentativo di sinistra che osa dire “sociale” viene guardato come una reliquia sovietica con la barba lunga.

Eppure, questo entusiasmo ha qualcosa di teneramente rivoluzionario. Significa che da qualche parte, sotto la ruggine del disincanto, batte ancora un cuore che crede nel cambiamento. Che non tutto è cinismo, calcolo o astensione. Che ci si può emozionare senza dover chiedere scusa.

Forse il neo sindaco della Grande Mela non cambierà l’Italia, ma ci ricorda che la sinistra può ancora essere desiderabile, perfino vincente. Il guaio è che da noi, più che un nome da estirpare nell’album dei “vorrei ma non posso”, servirebbe una terapia di gruppo per smettere di importare sogni e cominciare, finalmente, a fabbricarne di nostri.